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Socialismo nel paese del Sol Levante

 Cosa può insegnarci il Giappone, Paese capitalistico pervaso da un forte senso della comunità? Riprendo alcune riflessioni di Fosco Maraini (Ore giapponesi) rielaborandole alla luce della mia esperienza. In Occidente l’individuo è tutto e la comunità è nulla, o quasi; in Giappone è l’esatto contrario. Il giapponese appartiene a un ceto sociale e, al tempo stesso, a una miriade di micro-gruppi coesi: l’azienda, la fabbrica, l’università, la scuola, il centro culturale, ecc. Il gruppo comprime l’individualità, ma è anche una crisalide che protegge da una realtà mutevole e capricciosa. Anello intermedio tra capitale e lavoro, il gruppo è un formidabile ammortizzatore sociale. In Occidente, la più grande esperienza associativa, quella del partito operaio di massa, rispecchiava la divisione della società in grandi aggregati omogenei, le classi sociali. Quella forma organizzativa, coagulando una coscienza di classe, reagiva alla frammentazione causata dall’impetuoso sviluppo industriale – a cavallo tra Otto e Novecento, intere comunità agricole vengono polverizzate. Nasce così il mito della centralità operaia, che però ha vita breve. Nell’era post-fordista e del terziario avanzato gli operai non sono più la maggioranza della forza lavoro. Un’emorragia di militanti debilita i partiti della sinistra, e cambia il modo di far politica (bisogna catturare il voto fluttuante, tipico delle società interclassiste, mediante nuove forme di comunicazione politica). Venuto meno il partito-chioccia, il lavoratore è sempre più esposto agli scossoni del mercato, che neppure quello più regolato riesce a evitare.

Non così in Giappone dove la rivoluzione industriale non ha eroso lo spirito comunitario, preesistente all’organizzazione produttiva capitalistica. Da millenni una sorta di ‘olio confuciano’ lubrifica gli ingranaggi della convivenza civile. Prima lezione: le tradizioni culturali e religiose non intralciano sempre la modernizzazione; a volte costituiscono un anticorpo contro gli spiriti animali del capitalismo.

La comunità nipponica ha una struttura piramidale: al vertice c’è il capo, cui si deve rispetto; ognuno ha il suo posto e deve fare la sua parte. L’organizzazione del lavoro è inflessibile: non tutti possono avere le stesse responsabilità o gli stessi compiti. I modelli di autogestione della cultura socialista occidentale, invece, si basano su relazioni di potere orizzontali: la cooperativa, il kibbutz israeliano, tendono a erodere il principio di autorità (democrazia socialista = assenza di verticismo; il capo è, al massimo, un primus inter pares). Seconda lezione: la comunità necessita di una qualche forma di gerarchia.

La competizione, in Giappone, è spietata. Eppure anche chi non ha talento trova un posto dignitoso (sicché la disoccupazione in Giappone è molto più bassa che in Occidente). Poiché gli obiettivi si conseguono solo con il gioco di squadra, ognuno è premiato per l’apporto che dà all’impresa collettiva. Terza lezione: la comunità valorizza il talento individuale. In Occidente questo l’ha capito solo la sinistra social-democratica o di ispirazione liberale. Quella radical-antagonista livella verso il basso: ignora il merito e si preoccupa unicamente dei bisogni.

I giapponesi rispettano ogni genere di attività lavorativa. In Occidente, oggi, i lavori manovali e ‘umili’ sono spesso disprezzati, e quindi vengono appaltati agli immigrati, il nuovo Lumpen-proletariat dei nostri tempi. Il fatto è che che la sinistra anticapitalistica occidentale ha progressivamente eroso l’etica del lavoro: se la fabbrica o l’azienda mi sono ostili perché mi sfruttano, come posso identificarmi con esse? Se il lavoro è per definizione alienante, non sono forse giustificato a intralciare il processo produttivo, che è disumanizzante, e ad incalzare di continuo il padronato? L’alta coscienza di sé (sono orgoglioso di appartenere a una classe rivoluzionaria-progressiva) non ha limitato i danni: la vera comunità, infatti, non è mai qui, è sempre di là da venire – solo l’URSS ha instaurato la proprietà collettiva dei mezzi di produzione. Certo, la lotta di classe è stata a lungo una dura realtà per milioni di lavoratori. Ma i tempi sono cambiati.

Senonché, lo spirito comunitario si diffonde nella società civile solo se c’è una ramificazione capillare di micro-comunità ben strutturate. E ogni gruppo è coeso perché si regge sul senso di dovere degli individui che lo compongono. I doveri prevalgono sui diritti, e gli interessi collettivi sovrastano quelli individuali. Questo deve farci riflettere: dalla Rivoluzione francese in poi, la sinistra europea ha costruito la propria identità sui diritti più che sui doveri. Forse qui c’è una contraddizione su cui val la pena soffermarsi. Quarta lezione: senso del dovere ed etica del lavoro sono un ossigeno per la social-democrazia: solo la crescita economica consente margini per la redistribuzione del reddito nazionale. E l’economia giapponese è altamente produttiva anche perché la conflittualità sociale è ridotta al minimo.

In Giappone, infine, c’è un amore profondo per la cultura in ogni sua espressione (arte, poesia, teatro, musica). Ciò costituisce un argine contro il materialismo più gretto. L’uomo non sarà mai un mero ingranaggio del sistema economico-produttivo. Quinta, e ultima, lezione: il socialismo liberale vive sia di materialità – rivendicazioni politiche ed economiche – che di spiritualità.

Antonio Gramsci aveva compreso che la cultura è l’asse portante di ogni strategia politica di ampio respiro. La lotta per una società più giusta è politica e culturale. I due termini sono inscindibili. Gli intellettuali, dunque, devono tornare a svolgere un ruolo chiave: senza una base teorica, e senza un’azione pedagogica permanente, non può esserci nessuna politica realmente riformatrice.

Edoardo Crisafulli

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