La psicologia d’accatto distoglie l’attenzione da riflessioni ben più serie. (1) La diffidenza per i politici, anche se eletti democraticamente, attraversa come un fiume carsico tutte le società. Chi pensava che la democrazia fosse il regno dell’armonia che riconcilia “masse” e “potere”, si è sbagliato. Forse dobbiamo fare i conti con un impulso anarcoide, che cova sotto la cenere, pronto a scatenarsi alla prima occasione. Un impulso che, nonostante le apparenze, non deriva né dalla tradizione socialista né da quella liberale. I socialisti hanno sempre pensato che il potere capitalistico, non il potere tout court, fosse corruttore e prevaricatore. I liberali, poi, sostengono una lezione elementare: chi detiene il potere politico può abusarne, sicché bisogna limitare le prerogative del governo (lezione, detto per inciso, estranea al marxismo, ma accolta in pieno dal liberal-socialismo). L’impulso cui alludo affonda le radici in un magma torbido: l’anti-politica, fonte inesauribile dei vari populismi. (2) Il distacco tra élites democratiche e gente comune è il veleno della sinistra riformista, che, per statuto, ambisce a governare (quella antagonista e/o giustizialista si rifugia nell’indignazione permanente, nell’opposizione perpetua). (3) Solo riformando la politica avremo un antidoto efficace alla demagogia. Occorre forgiare una classe dirigente a prova di anti-politica – impresa ardua perché mancano partiti con cultura e identità forti. Va riscoperta l’eredità migliore dei comunisti italiani. La questione morale non è, né sarà mai, un programma politico. Ma l’onestà è, e sarà sempre, una condizione essenziale per far politica. Sappiamo bene che Craxi non era più disonesto di Berlinguer (durante la guerra fredda, entrambi incameravano finanziamenti illegali per i loro partiti). I comunisti, però, seppero cogliere meglio l’esigenza di onestà, radicatissima nel popolo di sinistra. Ma cos’è l’onestà per un un leader o un militante della sinistra? È l’obbligo assoluto di coerenza con gli ideali professati. Il che significa, in sostanza, vivere in maniera sobria, morigerata, quasi come un monaco francescano. Il guaio, oggi, è che la classe dirigente della sinistra è percepita come una casta titolare di privilegi. Una casta che, stordita da indennità generose, ha perso il filo diretto con il “popolo”, quell’entità misteriosa che fatica ad arrivare a fine mese. Il fatto che la vicenda Kahn abbia fatto pensare più al sessismo che al classismo, la dice lunga: ormai si dà per scontato che i politici di sinistra possano vivere nel lusso. Eppure un tempo i funzionari del PCI percepivano lo stipendio di un metalmeccanico. E, quando venivano eletti in Parlamento, versavano gran parte dell’indennità al partito. È da nostalgici rimpiangere quei tempi?
George Orwell, che comunista non era, nel diario che scrisse mentre preparava The Road to Wigan Pier (1936), memorabile saggio sulla condizione dei minatori inglesi, contrasta polemicamente lo stile di vita dei dirigenti sindacali e politici con quello dei minatori, gli unici veri proletari: “Un fatto continua a colpirmi: un lavoratore, non appena ottiene una posizione ufficiale nel sindacato o entra in politica col partito laburista, entra a far parte della classe media, che lo voglia o meno. Ovvero: lottando contro la borghesia diviene egli stesso un borghese. È inevitabile, questo è il punto, che il tuo reddito determini il tuo stile di vita e, con questo, la tua ideologia.”
(2- fine)
Edoardo Crisafulli
