Molti ora dicono che Pierluigi Bersani non ha capito. Il PD non ha capito. E proprio perché è mancata la comprensione della situazione, il PD è riuscito nella clamorosa impresa di “ non vincere” le elezioni forse più importanti della storia italiana. Curzio Maltese dice che alla base della sconfitta c’è «l’eterna incomprensione della questione settentrionale, in gran parte coincidente con la questione fiscale». Anche per Gianluigi Paragone «il PD non ha capito il Nord: tasse e Germania». Per Rosario Crocetta, invece, «il PD non ha capito la lezione della Sicilia». Anche per massimo Cacciari, il PD non ha capito, pur credendo di capire: «Sono delle teste di cazzo! Loro sanno tutto, loro capiscono tutto. Loro possono insegnare tutto a tutti. Mentre gli altri sono dei cretini». E poi potremmo citare decine di frasi prese dai blog di militanti e cittadini: «non hanno capito la rabbia dei lavoratori», «non hanno capito il disagio degli imprenditori», «non hanno capito la disperazione dei disoccupati», «non hanno capito la sofferenza dei pensionati», ecc.
Bersani dice in campagna elettorale che la situazione è difficile e non si può promettere l’impossibile. Il PD ci tiene a presentarsi come partito serio, sobrio, affidabile. La situazione è davvero difficile, ma anche molto favorevole per un partito di sinistra. C’è una crisi economica gravissima dovuta al fallimento su scala planetaria del fondamentalismo liberista. C’è, in Italia, un Silvio Berlusconi che dal 2008 nega la crisi e porta l’Italia sull’orlo del default. È completamente screditato all’estero, ma anche in madrepatria (infatti perde sei milioni e trecentomila voti). In tutto il mondo, sull’onda della crisi del capitalismo, avanzano le sinistre riformiste e radicali, sulla base delle proprie parole d’ordine storiche: intervento pubblico, beni comuni, lotta contro i poteri forti, politiche sociali, tetto ai profitti dei manager, equa redistribuzione delle ricchezze, autodeterminazione dei popoli.
È un’occasione unica per il riscatto della sinistra. Un’occasione che forse non capiterà mai più. Basta rivolgersi alla gente con le parole giuste. Non servono necessariamente quelle della sinistra massimalista, sempre cieca di fronte ai problemi dei lavoratori autonomi, della piccola impresa, dei commercianti. Parole che, tra l’altro, non potrebbero essere nelle corde dei dirigenti PD. Basterebbe però mettersi contro il grande capitale, le banche senza scrupoli, i privilegi della casta politica e finanziaria, per pescare voti anche tra la piccola borghesia del Nord e i giovani disoccupati del Sud.
Questo non accade. Ma davvero possiamo credere che i dirigenti del PD siano degli sprovveduti? Davvero possiamo credere che si possa dare la colpa ai sondaggi sbagliati o imputare l’esito fallimentare della campagna elettorale all’incapacità dei dirigenti? Proviamo ad affrontare la questione in modo più analitico. La sociologia mette sempre al centro dell’analisi il “social constraint” – ossia la costrizione esercitata dal contesto strutturale sulle possibilità di decisione degli attori. Questa è pure una prerogativa della teoria dei giochi, della quale le scienze sociali si servono con profitto. La questione non è solo capire o non capire, ma anche potere o non potere. Proviamo allora a considerare l’ipotesi inversa: i dirigenti del PD hanno capito perfettamente la situazione, sapevano benissimo cosa stava bollendo in pentola, ma non potevano fare altro che quello che hanno fatto. Ora, la domanda interessante è: perché?
Se il PD sapeva benissimo che avrebbe potuto vincere a mani basse dicendo “qualcosa di sinistra” (di sinistra moderna, attenta anche alla piccola e media impresa), perché non l’ha fatto? Perché, invece di rassicurare i precari, i disoccupati, i lavoratori, i pensionati, i piccoli imprenditori, ha investito tutte le energie per rassicurare i poteri forti? Ha rassicurato gli Stati Uniti, il Vaticano, la BCE, le banche, i grandi capitalisti, la Trilaterale, ecc., promettendo l’alleanza ad ogni costo con il loro uomo: Mario Monti. E perché continuare a corteggiare Monti, peraltro riluttante, sapendo che era inviso alle masse? (Detto tra parentesi: non sono riuscito, in due mesi, a trovare una sola persona capace di guardarmi negli occhi e dire “io voto Monti”. Forse perché non frequento i salotti dell’alta borghesia). Non sanno i dirigenti del PD che in democrazia vige la regola “una testa un voto” e che un banchiere ha una sola testa, esattamente come un cassaintegrato?
Ovviamente, lo sanno. Il problema allora è che il PD non può dire o fare “qualcosa di sinistra”, perché non è mai stato un partito “di sinistra”. È un partito moderato per vizio d’origine. È nato dalla fusione tra ex democristiani, ossessionati dall’idea di stare al centro, e da ex comunisti complessati per i trascorsi antisistema e dunque interessati prioritariamente a “mostrarsi affidabili”. Anzi, i cittadini hanno perfino scoperto che il PD non solo è al servizio delle banche, ma controlla grandi banche, ricevendone finanziamenti (pur regolarmente registrati). Se anche non risultassero illegalità, è diventato chiaro che questo partito – in un conflitto come l’attuale tra “capitale finanziario” e “popolo” – non potrà mai essere fino in fondo dalla parte del popolo. Non è solo mancanza di comprensione. O mancanza di coraggio. È che dovrebbe andare contro se stesso, contro un sistema di cui è parte integrante.
Perciò, Bersani non poteva che dire «smacchiamo il giaguaro» o «faremo qualcosa per i lavoratori, ma non possiamo promettere l’impossibile» – dopo avere peraltro votato tutti i provvedimenti anti-popolo e pro-banche del governo tecnico. Del grande equivoco si sono accorti, per ora, tre milioni e mezzo di elettori. Quelli che hanno lasciato il partito. Ora, suo malgrado, il PD è stato posto davanti a un bivio, ma chiedergli di cambiare sic et simpliciter tradisce una certa ingenuità. Prima di chiedersi se vuole cambiare, ci si dovrebbe chiedere se può cambiare.
Riccardo Campa
