La stagnazione economica ha accelerato la redistribuzione del potere: la nuova accumulazione deve forzatamente avvenire con il blocco della crescita dei salari e con un maggiore sfruttamento dei lavoratori, nella scia del “toyotismo”. La politica si è posta come compito quello di creare un ambiente business friendly e ridurre la forza delle forme di contrattazione collettiva del lavoro; il nemico è stato identificato nello Stato sociale, portando ad una vera e propria lotta di classe che ha spostato la tassazione dal profitto al lavoro. Solo in Italia, questo spostamento ha rappresentato il 15% del PIL.
Ma la promessa neo-liberista di Hayek è divenuta sempre più illusoria. La crisi economica ha confutato la teoria dello sgocciolamento, del “ce ne sarà per tutti”. Le disuguaglianze sono aumentate, la società è stata divaricata, il ceto medio va scomparendo.
Ma saremmo parziali se non riconoscessimo che tutto ciò è stato anche causato da un ineluttabile processo di globalizzazione, in cui nuovi, prima affamati e poi agguerriti competitors si sono affacciati sulla scena. La globalizzazione economica ha messo in difficoltà il modello socialdemocratico e, pur se in molti Paesi europei ancora resiste una matrice di welfare State, il socialismo europeo è sembrato tradire o cedere. Va ricordato che il modello socialdemocratico europeo è stato costruito in un’epoca di dominio dell’Occidente. Con la globalizzazione e la contestuale crisi del modello socialdemocratico, ha perso sia quella parte della sinistra che guardava con più ottimismo al futuro ed alla possibilità di una traiettoria ancora convergente con il capitalismo e sia quella sinistra che si era arroccata sul compromesso sociale nell’ambito dei confini dello Stato nazionale.
Non illudiamoci quindi che la crisi in atto dal 2007 riporti automaticamente in campo la sinistra. Le politiche di austerità, con cui finora si è reagito alla crisi, vanno nella direzione di ricomporre il vecchio ordine, aumentando le disuguaglianze. Nella crisi, la destra ha interpretato tutte e due i ruoli. Da un lato una destra neo-liberista, che ha costruito l’Europa del dopo Maastricht con una serie di vincoli e regole che non sono più politicamente contendibili. Paradossalmente, mentre negli Stati Uniti il cittadino può votare Obama che almeno prova a cambiare le cose estendendo le tutele previdenziali ed assistenziali, salvaguardando senza nazionalismi i posti di lavoro e provando a tassare in modo progressivo le classi più abbienti, in Europa questo appare oggi precluso nell’attuale sistema di regole.
Dall’altro lato la destra gioca il ruolo di una destra populista che cavalca la crisi, facendo leva sulle paure recondite.La risposta alla crisi economica può però diventare il terreno di una fondamentale lotta politica in Europa, in cui le forze progressiste e socialiste ricomincino a giocare una partita insieme.
Se non si pone rimedio in ambito europeo, infatti, la crisi si rivolge contro la stessa Europa. Lo vediamo, per l’appunto, con la nascita di numerosi partiti populisti ed antieuropeisti, anche di sinistra. Lo Stato nazionale è entrato in crisi ed occorre saper vedere nell’integrazione politica dell’Europa il momento di svolta della socialdemocrazia. Occorre ritornare ad un primato della politica sul mercato, superando il concetto che il principale problema dell’Europa sia il debito, quando Stati Uniti e Giappone adottano politiche monetarie non convenzionali pur di sostenere il proprio tessuto produttivo. Ed anche ciò che accade in Cina, con le prime proteste da parte di lavoratori ipersfruttati, può avere riflessi significativi sulle nostre esistenze, proprio come la globalizzazione e l’Euro li hanno avuti negli ultimi quindici anni.
Occorre dunque dare una nuova impronta all’Europa, che ha la massa critica per opporsi a quei movimenti di capitale sovranazionale ed a quella finanza policentrica che sfuggono alla tassazione. Ma per far ciò non si potrà prescindere dalla ricostruzione di una identità socialdemocratica, da contrapporre all’egemonia neo-liberista, e questo potrà avvenire non solo tramite le Università, ma anche con la riscoperta di un linguaggio e l’ausilio di think-tanks di sinistra.
Alfonso Siano
