-di FEDERICA PAGLIARINI-
Il 25 gennaio 1959 ci fu l’ufficializzazione del Concilio Vaticano II indetto da Papa Giovanni XXIII, a soli tre mesi dalla sua elezione al soglio pontificio. La prima cosa che il Papa si affrettò a precisare, è stata la netta divisione del nuovo Concilio con il precedente. Infatti il Concilio Vaticano II non era da considerare una prosecuzione del Concilio Vaticano I, interrotto e mai concluso nel 1870 (a causa della presa di Roma da parte del Regno d’Italia). Avrebbe avuto una propria autonomia e un proprio disegno.
Il Concilio vene ufficialmente aperto l’11 ottobre 1962 nella basilica di San Pietro. Ma cos’è il Concilio? E’ un’assemblea suprema della chiesa cattolica. Ne fanno parte il Papa, i Patriarchi, i Cardinali e i Vescovi. Al suo interno si prendono molte decisioni, sia di legislazione ecclesiastica, che di dottrina e liturgia. Le scelte fatte, per essere valide, devono essere approvate dal Papa.
Il Concilio Vaticano II si svolse con grande passione nei tre anni successivi al 1962. Purtroppo non sarà Papa Giovanni XXIII a concluderlo. La morte lo coglierà infatti nel 1963, a causa di una malattia. Sarà poi portato avanti e terminato dal suo successore, Papa Paolo VI.
Qual era stato il motivo che aveva spinto la sua convocazione? La volontà di un rinnovamento della chiesa riferito ai cambiamenti sociali e culturali che avevano investito la società dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Le decisioni sono state molte, ma tra le più importanti abbiamo: la distinzione netta tra Tradizione e Scrittura, anche se, alla fine, si sancì che entrambe fossero da interpretare come un’unica fonte. Si approvò la messa nella lingua corrente di ogni Paese, dato che fino a quel momento era in latino. Importante il capitolo dedicato agli ebrei. Si voleva scacciare ogni odio nei loro confronti e ogni germe di antisemitismo, anche se la questione rimase in sospeso. Abbiamo un’apertura verso le altre religioni e i non credenti. Inoltre con questo Concilio si chiude l’era in cui la Chiesa voleva avere la facoltà di possedere delle leggi valide in ogni ambito.
Il Concilio Vaticano II può essere paragonato per la sua importanza (ma non per le motivazioni e gli obiettivi, quasi agli antipodi: da un lato un intento riformistico, dall’altro uno decisamente controriformistico) al Concilio di Trento, iniziato nel 1545 e terminato nel 1563, sotto tre differenti Papi. Era stato indetto per scontrarsi con le tesi luterane e con tutto il protestantesimo. Punto principale era sottolineare la supremazia della Chiesa Cattolica. Il primo Papa a convocarlo fu Paolo III e la sede venne più volte spostata a causa della peste (si trasferì per alcuni periodi a Bologna). I problemi di cui si discusse furono molteplici. Si ribadì il valore dei sette sacramenti e la chiesa si dichiarava unica forza per interpretare le scritture. Inoltre rinunciava al cumulo dei benefici e il latino venne dichiarato lingua ufficiale e universale. Nacquero anche nuovi ordini religiosi.
Ma il Concilio di Trento è ricordato soprattutto per una campagna “anti-culturale” sia verso l’arte che la letteratura. Nacque l’”Indice dei libri proibiti”, nel quale venivano elencati tutti quei testi che secondo la chiesa, andavano contro le loro dottrine morali e filosofiche. I libri non accettati dovevano essere bruciati e nessuno poteva leggerli. Un controllo assiduo e non giustificato era quindi iniziato.
Anche l’arte ebbe un controllo incessante sulle immagini che dovevano essere rappresentate. Le parole chiave erano: chiarezza e verità. Il dipinto, o la scultura doveva essere chiaramente leggibile e non doveva nascondere significati reconditi. Fino a prima del Concilio invece, la religione cristiana aveva avuto un rapporto fecondo con l’arte (c’erano sempre schemi da rispettare, ma molto più elastici). Anzi, era l’unica religione monoteista ad accettare la raffigurazione di immagini e a non essere iconoclasta, come invece accadeva in quella islamica. Dopo il Concilio di Trento questo clima pacato era praticamente scomparso.
Si decise che le opere destinate alle chiese fossero sottoposte al controllo del vescovo della Diocesi prima di esporle pubblicamente. Se non erano conformi alle richieste, o si rifiutavano o dovevano essere modificate. Tra i vescovi del periodo, c’è chi assunse una posizione ferrea e molto rigida nei confronti delle immagini. Uno di questi, è Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano che, nel 1577, pubblicò delle istruzioni precise per architetti, pittori e scultori di soggetti sacri. Ricordiamo due casi in cui le opere d’arte furono sottoposte a censura. La prima, che portò addirittura al processo dell’Inquisizione, vedeva protagonista Paolo Veronese, che, con lo splendido quadro “La cena in casa Levi”, lungo ben 12 metri, aveva scandalizzato la Chiesa. In breve, non piacquero le molteplici figure che popolavano il quadro, oltre al Cristo, san Pietro e san Giovanni. Sembrava che la scena fosse quasi un baccanale, con nani di corte, servitori, giullari e animali esotici. In questo modo, il fulcro centrale della scena, il Cristo, veniva meno. Veronese venne più volte interrogato sui significati del quadro e sull’identità dei personaggi. Alla fine, fortunatamente, il dipinto non venne censurato oggi lo si può ammirare a Venezia.
Il secondo caso, vede protagonista Michelangelo e il suo “Giudizio Universale” nella Cappella Sistina, dipinto sotto il pontificato di Paolo III. Inutile descrivere la scena che, straordinaria, è conosciuta in tutto il mondo. Cosa però determinò tanto scandalo? Le nudità dei personaggi, che vennero prese di mira anche nella Cappella Paolina, propria lì accanto. Si decretò così la copertura delle parti intime lasciate scoperte ad opera di Daniele da Volterra, amico e allievo di Michelangelo che, suo malgrado, fu costretto a coprire tutto per non vedere distrutta l’opera del maestro. Dipinse delle braghe e per questo prese l’appellativo di “braghettatore”.
Il Papa che decise questa modifica, era il tirannico Paolo IV Carafa che, tra l’altro, conosceva le inclinazioni religiose di Michelangelo, indirizzate verso il gruppo degli “Spirituali” insieme a Vittoria Colonna e al cardinale Reginald Pole (nipote di Enrico VIII). Il Papa, non vedeva l’ora di screditare l’artista. Oltre ad ordinare la copertura delle nudità, azzerò tutte le provvigioni del maestro, che videro uno spaventoso zero (nel periodo in cui tra l’altro era diventato direttore della Fabbrica di san Pietro). Questo periodo, molto cupo per la libertà artistica, prese il nome di Controriforma.
