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Italia anno zero: quattro sinistre per una débâcle annunciata

 

-di MAURIZIO FANTONI MINNELLA-

Tre sinistre scampate al diluvio delle ideologie, e altresì e fortemente provate da una crisi profonda che ha origine negli anni ottanta del secolo passato, da quella famosa marcia dei 40.000 della Fiat (1980) e in una più radicale trasformazione del lavoro (anche attraverso la delocalizzazione produttiva) e dei rapporti di forza tra proprietà e classe lavoratrice che oggi, per comodità, chiamiamo globalizzazione, ma che in Europa si sforzano di definire come mondializzazione, si presentano, ora, divise all’appuntamento elettorale del 4 marzo, dopo ben quattro governi non eletti, tuttavia consapevoli del fatto che le parole d’ordine che oggi faranno breccia sulle grandi masse popolari, al nord come al sud, non sono quelle appartenute per circa un secolo alla grande tradizione culturale e politica della sinistra. Si configurano, piuttosto, come richiami a un’idea di ordine, fatto di sicurezza e di paure collettive, egoismo sociale e xenofobia che pensavamo di avere lasciato alle spalle ormai da parecchi decenni, e che, al contrario, riappaiono nella loro paradossale attualità nelle forme di un populismo reazionario per niente nuovo, che insistere nel definire come “antipolitico”, non può che risultare fuorviante. Si tratta, invece, di una politica tendente alla democrazia diretta, che si richiama al concetto di sovranità popolare, il cui fine è semplicemente il controllo totale delle masse orfani della propria classe d’appartenenza. Crediamo sia proprio questo il frutto malato della crisi dell’ideologia di sinistra (comunista, socialista e riformista) in Italia ma anche nel resto dell’Europa, e non delle ideologie in senso più generale, come viene sempre più spesso contrabbandato dalla pubblicistica, anche quella più avanzata. Il fatto che, ad esempio, il Movimento 5 Stelle abbia adottato la definizione di post-ideologico, non significa affatto che in quel movimento-partito non persistano connotazioni che si richiamino a singoli elementi squisitamente ideologici. Ma se la perdita della centralità, o se si preferisce, della bussola politica e ora anche culturale (con la sopravvenuta crisi della figura e del ruolo dell’intellettuale, di cui spesso si discute sui grandi giornali quotidiani), è a monte, da ricercare nella fragorosa caduta del sistema di valori del socialismo reale mondiale, oggi si esprime prevalentemente nel ridimensionamento,  se non addirittura nella scomparsa effettiva della classe operaia, dei suoi valori, diritti e destini, e altresì della pratica della militanza politica territoriale (oggi riproposta, invece, con imbarazzante evidenza, dall’estrema destra che trova in un Matteo Salvini  un “valido” leader!). E’ in tutto questo che andrebbero ricercate le cause principali di un’ormai cronica empasse a cui ciascuna formazione politica collocabile a sinistra, ha reagito proponendosi come un’alternativa possibile.

 Partiamo, dunque, dal Partito Democratico, risultante di una metamorfosi “americana” (si pensi al sogno veltroniano del bipartitismo), di un grande partito di massa che ha progressivamente rinunciato, in nome di un progetto  riformista ambiguo e confuso, più spesso in antitesi con gli stessi valori della sinistra, alla propria vocazione originaria, quella di salvaguardare i diritti dei ceti più deboli, finendo per trasformarsi, anticipando così la proprio recente sconfitta, nel “partito del capo”.

Il tentativo legittimo e necessario di creare una nuova formazione a sinistra (che proprio nuova non è), comprendente Sinistra italiana e  le due anime transfughe del Partito Democratico, quella di Massimo D’Alema e quella di Pippo Civati, capace di rilanciare una sfida politica sul terreno dei diritti e del lavoro, si è infranto nell’indecisione, nella debolezza del leader e, soprattutto, in una mancata presa di distanza da taluni errori pregressi del centro-sinistra. Un’altra sinistra, invece, che in passato ebbe anche una discreta rappresentanza parlamentare,  ma dai connotati radicali e dunque, identitaria nel riaffermare la propria origine comunista (a partire dalla riproposizione del simbolo della falce e martello), si affida incautamente alla sigla tanto generica quanto ambigua di “Potere al popolo” (guarda caso è proprio la destra, oggi come ieri, a parlare di popolo!), concepita da un centro sociale napoletano Je so’ pazzo (con riferimento a una nota canzone di Pino Daniele che farebbe riferimento a un nuovo Masaniello…), generando così una contraddittoria miscela di partitismo da una parte e di movimentismo dall’altra. Infine, la sinistra che nel simbolo elettorale si definisce rivoluzionaria (tra cui quella trotzkista del genovese Marco Ferrando), ostinatamente e orgogliosamente a sinistra della sinistra, che ormai si vorrebbe fuori dalla Storia, piccole realtà politiche resistenti che, nonostante la proverbiale inconsistenza numerica e la crescente malattia del cosiddetto voto utile, ci ricordano, forse, che, al di là delle singole appartenenze, esistono ancora in circolazione una coerenza e un’idealità politiche. Tuttavia sappiamo che ciò non basta e mai basterà ad arginare l’idea, oggi purtroppo vincente, secondo la quale, l’affidarsi a un capo e al suo carisma mediatico, sia la sola via, il solo mezzo per il totale controllo delle masse popolari. Ed è contro questa politica “imperiale”, anzi, da basso impero, che la sinistra dovrà, in un futuro che è già presente, ritrovare con forza la propria ragion d’essere.

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