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IL TEATRO IN CARCERE – INTERVISTA A LAURA ANDREINI SALERNO

-di RITA BORELLI-

 

In occasione della riproposizione dello spettacolo La Formula di Grübler dello scorso 29 Novembre presso la Casa Circondariale Roma Rebibbia N.C. “R. Cinotti”, ho avuto il piacere di intervistare Laura Andreini Salerno, regista e drammaturga dello spettacolo, insieme a Marcello, un ex detenuto attore, che ci ha raccontato la sua esperienza e quanto il teatro abbia contribuito al cambiamento della sua vita e personalità.

È stata una conversazione coinvolgente e ricca di umanità con una donna e attrice di notevole talento artistico, ma soprattutto di grandi doti morali e umane che ne fanno una persona speciale. Una donna che ad inizio carriera ha avuto modo di lavorare con dei mostri sacri del teatro e del cinema: Vittorio Gassman, Eduardo De Filippo, Giorgio Albertazzi, Franco Zeffirelli, solo per citarne alcuni, e che, per tredici anni ha condiviso la sua vita, come moglie e collaboratrice con il grande attore Enrico Maria Salerno, al quale in ricordo ha fondato il Centro Studi a lui intitolato, che svolge attività culturali e di produzione teatrale e video-cinematografica, e che pone particolare attenzione ai problemi sociali a cui Laura dedica tutta se stessa. Un’opera virtuosa e lodevole che dal 2002 si è estesa anche ad attività che si svolgono nel Penitenziario di Roma Rebibbia, e che coinvolgono detenuti attori per un loro recupero di crescita culturale e artistica.

Laura, in venti anni di attività del Centro Culturale E.M. Salerno sono state realizzate oltre quaranta produzioni sia teatrali che audiovisive. Mi racconti qualcosa di questa esperienza? Quanto ti ha arricchito personalmente e quanto sei riuscita ad alleggerire i giorni di persone in difficoltà?

L’avventura in carcere è avvenuta dopo la morte di Enrico, anche se in realtà l’idea era stata sua. Enrico ad inizio anni ’60 fu uno dei primissimi artisti ad entrare in carcere, ed io ho ritrovato alcuni suoi scritti ed articoli – che sono ora parte di un archivio storico con più di 30.000 documenti – nei quali descrive una sua esperienza molto toccante, quando in Sicilia aveva recitato per alcuni detenuti nel carcere dell’Ucciardone. Non aveva mai pubblicizzato questa iniziativa perché Ernico era molto riservato, tuttavia ne era rimasto gratificato ed aveva ricevuto molte lettere di ringraziamento dai detenuti. Alla sua scomparsa, scoprendo questa bella storia, ho prima fondato il Centro Studi ed istituito in sua memoria un premio di drammaturgia di impegno civile e poi nel 2000, in occasione del quattro centenario del rogo di Giordano Bruno, ho intitolato il premio alla libertà assoluta, e da qui è iniziata questa avventura. Con gli anni l’iniziativa si è ampliata sempre più, perché ho scoperto che i bambini di madri detenute vivevano in carcere fino all’età di tre anni. Così, grazie all’aiuto di Leda Colombini, fondatrice dell’Associazione A Roma Insieme, e mia cara amica, ho aperto la mia casa a questi bambini. Successivamente il marito di Leda, Angiolo Marroni, allora Assessore nonché garante dei detenuti della regione Lazio, chiese a me e Fabio Cavalli – mio collaboratore da sempre – di aiutare alcuni detenuti di alta sicurezza del carcere di Rebibbia che desideravano portare in scena uno spettacolo di Eduardo De Filippo: Napoli milionaria.

Che ricordi hai di questo spettacolo?

Sarebbe dovuta essere un’esperienza isolata. Invece ha cambiato radicalmente il senso della mia vita, facendomi ritrovare la percezione del teatro, quello della grande tradizione che avevo scelto di fare da giovane e che mi aveva permesso di incontrare artisti come Vittorio Gassman, Giorgio Albertazzi e poi di lavorare con Enrico fino alla sua scomparsa.

E dopo?

Dopo la scomparsa Enrico ho sentito ancora più chiaro in me che fare l’attrice scritturata non aveva più senso. Offrire invece il mio supporto e la mia esperienza a queste persone detenute con dei grandi problemi, era un modo per riscoprire l’autenticità del teatro vero, quello necessario, quello importante, significativo.  Entrare in carcere e mettere a disposizione la nostra esperienza e professionalità, creare un rapporto con queste persone era arricchente sia per loro che per noi. È un’esperienza faticosissima che assorbe oggi sempre maggiori energie e che mi pesa moltissimo, ma che è diventata per me una ragione di vita e che mi vede sempre presente e motivata. Negli anni il Centro si è evoluto ed abbiamo realizzato lavori importanti anche nel cinema: Cesare deve morire dei fratelli Taviani per esempio. Poi ci occupiamo anche di pittura e un po’ di tutte le arti in generale.

Oltre a questo di cos’altro ti occupi?

Mi occupo anche dei detenuti transgender di Rebibbia: un lavoro costante che giorno dopo giorno ci coinvolge sempre di più, e non solo artisticamente, anche emotivamente; perché viviamo la sofferenza di queste persone recluse. Fortunatamente negli anni il carcere è cambiato nei modi e nelle situazioni, ma a è comunque difficile affrontare ogni giorno queste esperienze, che sono mitigate da eventi significativi da ricordare.

Quali per esempio?

Quando per esempio siamo riusciti a portare la Compagnia dei detenuti attori in alcuni teatri di Roma, come il Quirino, il Valle, l’Eliseo, l’Argentina. Sto cercando di farlo ancora oggi.  Abbiamo ottenuto grandi risultati anche nel periodo del lock-down quando il carcere era ovviamente isolato. Siamo riusciti a mantenere i contatti con i detenuti portando in carcere la linea internet e da remoto interagire con loro e far sentire la nostra presenza. Dare a queste persone la possibilità di aprirsi ad un immaginario è il nostro obiettivo, perché la loro condizione non è solo di limitazione di libertà fisica, ma anche quella di non avere rapporti umani come li intendiamo noi.  Forse è proprio questa la più drammatica limitazione di libertà che sperimentano.

Ovvero?

Non avere la possibilità di scambiare abbracci, scambi affettivi veri. Per non parlare delle delusioni che, non solo nella vita ma anche in carcere, si trovano a dover affrontare. Si rinchiudono dentro tanti recinti, creandosi delle gabbie dalle quali non riescono più ad uscire. Lì scatta la depressione. Bisogna anche considerare che molti di loro non sono scolarizzati ed hanno una cultura di base limitata. Aver avuto la possibilità di donare loro le parole, le immagini, le storie, ha significato regalare una identità diversa da quella che vivono quotidianamente. Significa farli sentire non più cellule isolate ma facenti parte di un gruppo, di una squadra, farli diventare una Compagnia teatrale vera, con la C maiuscola. Ecco: è in quel momento che avviene il miracolo, l’inizio di qualcosa di diverso che può cambiare le loro vite. Non sono più delle persone che hanno deragliato che devono scontare una pena, ma persone nuove.

Da dove è partita l’dea drammaturgica dello spettacolo La formula di Grübler?

È stato un lungo percorso iniziato con una suggestione letteraria. Una trasmissione radiofonica parlava di un libro di Bonanno: Vite straordinarie di uomini volanti. Un testo delizioso, dove l’autore racconta vicende di personaggi strani, mistici e santi che in tempi lontani volavano. Per l’epoca questi prodigi erano ritenuti normali. Giuseppe da Copertino per esempio, sembra riuscisse regolarmente a volare secondo le cronache del tempo.

E quindi?

La storia di Bonanno, unita alla commistione del romanzo di Palazzeschi Il codice di Perelà, dove si racconta di un uomo di fumo che esce dal camino e si incammina nel mondo, mi ha intrigato e fornito lo spunto per il primo spettacolo: Istruzioni di volo, in cui ha recitato anche Marcello.

E poi? Cosa è successo?

Partendo da questa base, con Francesca Di Giuseppe per caso abbiamo letto di un matematico che aveva scoperto una formula con la quale riusciva a definire i gradi di libertà di un corpo nello spazio secondo le rotazioni di un meccanismo disposto nel piano. È stata l’illuminazione e l’idea dello spettacolo La formula di Grübler, che si basa appunto sulla possibilità dell’uomo di riuscire a sfidare ogni legge ed essere in grado di volare. Tra l’altro fino al ‘600 volare era ritenuto normale. Solo successivamente è stato sconfessato dalla speculazione scientifica. Del resto anche Albert Einstein non diceva che “la struttura alare del calabrone, in relazione al suo peso, non consente il volo; ma lui non lo sa e vola lo stesso”?

È vero!

Così da tutte queste storie straordinarie è nata l’idea di raccontare quella di un gruppo di uomini che cercano di trovare una formula per volare via da un’isola dove ognuno è privo di libertà ed identità, proprio come avviene nel carcere, dove tutti non hanno più un nome ma sono solo un numero. L’intenzione dello spettacolo è però più profonda, perché cerca non solo di assimilare l’isola al carcere, ma vuole essere una metafora della condizione umana che dovrebbe mirare al superamento del proprio limite, trascendendolo per innalzarsi ed ottenere una visione più ampia e un sé diverso.

Marcello tu come sei arrivato al teatro e che cosa ti ha fatto intraprendere il desiderio di recitare?

M. È stata una casualità. Nel 2014 venni trasferito a Rebibbia dopo aver girato tante carceri in Italia, dove non avevo mai avuto la possibilità di fare nulla. A Rebibbia invece, venuto a conoscenza di questo progetto, compilai – come si fa sempre – una richiesta a cui seguì un colloquio con Laura, una specie di provino. Francamente all’inizio ero scettico ma comunque molto curioso. Il teatro mi affascinava da sempre, ma in realtà credevo che l’iniziativa consistesse in una recita scolastica e che non fosse un vero e proprio spettacolo.

Poi hai cambiato idea?

M. Sì, da subito ho capito di essermi sbagliato perché Laura ci ha sempre trattati come degli attori veri e non ci ha mai fatto sentire dei detenuti. Ha iniziato facendoci una vera e propria scuola di teatro. Dovevamo dire e fare cose che inizialmente ritenevo strane. Ho anche pensato di essere uscito da una cella per ritrovarmi in un manicomio! Pian piano ho capito però che tutto era parte di un progetto che mirava alla preparazione dello spettacolo, e mi sono appassionato tantissimo. Posso dire che il teatro mi ha cambiato profondamente. Io sono sempre stato un soggetto chiuso, mai a proprio agio, che non dava confidenza.

Poi sei cambiato?

M. Molto. Con il passare del tempo ho capito che dovevo liberarmi del Marcello che ero diventato ed ho preso coscienza di poter essere un uomo nuovo. Ma oltre al fiorire del mio nuovo Io, ho avuto anche l’opportunità di confrontarmi con persone che mi hanno ascoltato e capito. Durante gli anni di detenzione a Rebibbia grazie a Laura, Francesca, Giuditta, Fabio, non ho mai avuto necessità di parlare con nessun operatore del carcere, perché ho sempre trovato in loro delle persone che hanno saputo sostenermi e consigliarmi nei momenti di sconforto. E in carcere, credimi Rita, ce ne sono stati tanti. Con loro sono riuscito ad aprirmi, confidarmi ed essere diverso.

Prima di continuare vorrei che mi chiarissi cosa intendevi quando hai detto: “Ho iniziato a liberarmi del Marcello che ero diventato”.

M. Intendevo dire che prima di intraprendere il percorso teatrale ero molto chiuso, diffidente, arrabbiato con me stesso e con il mondo intero. Sai, io sono fuori dal carcere appena da tre mesi dopo ventidue anni di reclusione. Ho girato carceri di tante città e non ho mai avuto la possibilità di parlare, di confrontarmi con nessuno e, – anche per mia volontà – non ho voluto mai fare nulla. Dovevo stare in carcere? Perfetto, dovevo solo scontare la pena e quindi non fare nulla. Potevo tutt’al più leggere dei libri e questo doveva bastarmi. Poi, ho capito attraverso il teatro, che Marcello era ben altro, che poteva ritornare ad essere il ragazzo del 2001, quello prima dell’arresto, quello che avevo dimenticato negli anni di isolamento dove per tutti non ero stato che un numero. Del resto ti devi adattare a questa vita in carcere, cercando solo di fare lo stretto necessario per sopravvivere.

L. Il percorso che facciamo è considerarli sempre delle persone, degli esseri umani, senza mai commiserarli. Il teatro è un luogo magico, dove ognuno è libero, perché è un gioco serissimo dove ognuno può ritrovare la dimensione di tornare bambino ed essere ciò che si vuole, senza alcun filtro, ritrovare la fluidità della liberazione suprema. Marcello inizialmente era chiuso, un carattere blindato, arrabbiato, permaloso, poi pian piano si è aperto ed è riuscito a trovare la forza di credere negli altri e rifiorire ritrovando se stesso.

Marcello in carcere come si vive? Si riesce a familiarizzare?

M. Si familiarizza solo con quelli che senti vicini a te. Solo con questi spartisci alcuni momenti della giornata, come prendere un caffè o fare una passeggiata nell’ora d’aria. Si è sempre prudenti. Il teatro però mi ha cambiato, anche in questo. Sono riuscito a farmi conoscere e aprirmi con persone a cui non avrei mai pensato di rivolgere la parola. Ho conosciuto un altro detenuto siciliano per esempio. Lui è di Catania, io di Palermo e tutti e due abbiamo la stessa passione: il teatro. Pensa che durante l’ora di passeggio studiavamo le parti dello spettacolo, anche perché all’interno del carcere inizialmente non c’era un posto dove poter fare le prove. Vorrei fare una premessa importante. Posso?

Certo.

M. Vorrei dire che è stato grazie al contributo economico del Centro Studi E.M. Salerno che sono state realizzate le opere e comprate le attrezzature necessarie a raggiungere gli obiettivi che abbiamo raggiunto. Non è stato certamente grazie alle Istituzioni che si mettono in mostra solo alla fine, cercando di farsi avanti come se fossero loro i promotori di progetti che non gli appartengono.

Il teatro è impegnativo? Faticoso?

M. Il teatro è molto faticoso, a volte rimaniamo a provare fino a tardi prima del debutto, ma è bellissimo. È un’emozione incredibile guardare attraverso il sipario la platea che si riempie di persone venute lì per noi. Magari c’è anche qualche familiare, o solo del pubblico che non conosci ma che viene per applaudirti, o forse magari no! Poi entri in scena e tutto si azzera, la fatica, la paura, l’eccitazione ti travolge e alla fine gli applausi sono la ricompensa più gratificante. Rimane solo il dispiacere di vedere coloro che non si sono spesi per queste iniziative che salgono sul carro dei vincitori attribuendosi meriti che non hanno.

C’è una esperienza teatrale esterna che ti ha particolarmente gratificato?

L. Ricordo uno spettacolo fatto a Bollate con una ventina di detenuti. Marcello ancora non faceva parte della Compagnia, perché lui ha iniziato con il mio primo lavoro La rivoluzione alla sudamericana. Il viaggio per Bollate comunque fu allucinante e faticosissimo: durò circa dieci ore. Pensa Rita che i detenuti viaggiavano in blindati con le manette. Senza mangiare e bere e con delle Guardie Carcerarie rigorosissime e intransigenti. Dopo lo spettacolo tutto è cambiato e anche le Guardie Carcerarie erano orgogliosissime degli attori-detenuti. Alcune di loro ancora oggi ricordano quell’occasione come mitica. Questo per dire che nel tempo molte cose per fortuna sono cambiate ed in meglio. Per me è stata una delle occasioni più gratificanti e commoventi. Il teatro aiuta anche in questo.

Marcello grazie al teatro sei riuscito a coinvolgere altri detenuti nella recitazione? Qual è stata la loro risposta?

M. Sì, sono riuscito a far appassionare anche altri detenuti che sono, purtroppo, ancora a Rebibbia e che continuano a recitare. Anche per loro è stata una esperienza che li ha cambiati e aiutati profondamente.

Ora che sei fuori dal carcere cosa vuoi fare? Vorresti continuare a recitare?

M. Magari mi capitasse l’occasione di fare anche una piccolissima particina, la farei di corsa! Il teatro mi interessa sempre tantissimo. Pensa che qualche giorno fa mi sono trovato per caso di fronte a Cinecittà ed ho inviato una foto a mia nipote che pensava stessi facendo un provino! Magari!

Laura, essendo Marcello ora fuori può ancora fare gli spettacoli che organizzate in carcere?

L. No purtroppo non è possibile. Queste attività sono solo per i detenuti.

Gli attori detenuti sono contenti di far parte della Compagnia di teatro?

L. Assolutamente sì! Pensa che alcuni di loro sono così coinvolti che rinunciano addirittura ai permessi premio per effettuare le prove. Tempo fa, un detenuto si è addirittura scusato, mi ha detto: “Laura mi dispiace tanto ma io purtroppo devo uscire e non posso più recitare”. Si rovescia tutto! Quando facciamo i colloqui con loro addirittura mentono sul tempo di detenzione pur di entrare a far parte della Compagnia. Giuseppe, l’amico di Marcello, quello siciliano, ha rinunciato addirittura al permesso per andare qualche giorno prima al funerale della mamma. Prima ha recitato e poi è partito. Per ognuno di loro entrare a far parte della Compagnia significa essere in simbiosi, in un’atmosfera intima e avvolgente di amore alla quale nessuno vuole più rinunciare.

Come descriveresti le doti attoriali di Marcello?

L. Marcello è il nostro orgoglio, la sua recitazione ha una forza incredibile. È riuscito con il tempo a canalizzare la sua rabbia convertendola in ironia e giocosità, pur rimanendo serio. Ha fatto emergere la sua vera natura soffocata da anni di solitudine e amarezza ridiventando nuovamente un uomo divertente ed ironico. Si è finalmente concesso la tenerezza che aveva perso e non si era più permesso ricacciandola indietro, sia verso se stesso che verso gli altri!

Qual è stata la molla che ti ha fatto cambiare così radicalmente Marcello?

M. Sentirmi considerato come un essere umano e non come un numero. Inizialmente in carcere non riuscivo neppure a parlare.

Sentirsi solo dei numeri è un tuo sentire oppure anche degli altri tuoi compagni detenuti?

M. No è di tutti, perché il carcere è questo. Non è come vivere in un parco giochi. Ognuno viene privato dei rapporti con i suoi cari, possiamo fare solo due telefonate al mese di dieci minuti ognuna per poter sentire le persone che amiamo.

Che altre attività potete fare oltre al teatro?

M. Oggi sono cambiate moltissime cose. Possiamo studiare, fare lo sport, lavorare. Io per esempio sono iscritto all’Università di Tor Vergata. È una scelta individuale voler fare qualcosa oppure no. Io ho fatto la scuola di teatro ed ho ottenuto anche il diploma che mi rende molto orgoglioso.

Laura a cosa stai lavorando adesso?

L. Stiamo lavorando con Giuditta Cambieri ad uno spettacolo che coinvolgerà dei detenuti transgender. È un progetto che si chiama Trans Vanguard e che ha tantissime sfaccettature perché non riguarda solo l’espressione teatrale ma guarda anche alla crescita personale dei detenuti transgender attraverso un supporto di counseling, – essendo io un Counsel -. I transgender sono delle persone difficilissime con dei vissuti particolari, sono anche molto violenti tra di loro. Tuttavia in questi corpi così mascolini vibra la fiammella della principessa delle fiabe.

E quindi cosa gli farete fare?

L. Abbiamo pensato ad una storia che riguarda le fate e risale al 1920. Racconta di alcune fate che furono fotografate diventando un caso mediatico importante che coinvolse addirittura lo scrittore Conan Doyle.

Addirittura?

L. Sì, stai a sentire. Nel 1920 questo caso mediatico si diffuse in tutto il mondo. Già Nel 1917, con l’apparizione di Fatima, molte persone raccontavano di vedere esseri invisibili, come folletti ed altre creature magiche dei boschi. In Inghilterra due cugine, una di sedici e l’altra di nove anni, parlavano continuamente e con insistenza di vedere le fate. Al che, il padre di una di queste diede loro una macchina fotografica dicendo: “Portatemi le prove che le fate esistono davvero”. Quando, la sera, questi sviluppò i dagherrotipi, due foto mostravano una delle bambine in mezzo a delle fate.

Ed erano delle foto vere?

L. Ascolta Rita. La madre di una delle due bimbe, – che faceva parte di un circolo teosofico -, portò a far vedere queste foto al circolo in cui uno dei componenti era il filosofo Gardner – che diventò in seguito lo stretto collaboratore di Conan Doyle – il quale vide le foto, prese i negativi e li tenne con sé. Conan Doyle, venuto a conoscenza di questa, storia contattò Gardner chiedendogli di inviargli le foto in America dove gli fece fare svariate analisi che confermarono la loro autenticità. Pensa che Conan Doyle, assertore della razionalità scrisse addirittura un libro dal titolo emblematico: Il ritorno delle fate nel quale afferma che questi esseri magici esistono veramente e appaiono all’uomo solo a determinate condizioni.

Che tipo di condizioni? 

L. Che occorre essere piccoli, essere puri, e queste creature possono essere attirate con le musiche e non devono essere spaventate.

Ma poi come finì questa storia?

L. Fu dimenticata per molto tempo. Poi negli anni ‘70, quando era in voga la New Age, ritornò alla ribalta. Una delle due cugine, che era ancora viva, fu intervistata e raccontò che alcune delle foto erano state in realtà ritoccate, ma che una era invece originale e attendibile. È una suggestione molto bella che ci consentirà di lavorarci facendola diventare uno spettacolo bellissimo. Tra l’altro, la cosa incredibile è che ognuna delle transgender afferma di vedere le fate. Quindi! Personalmente penso che si possono vedere esseri invisibili entrando nella loro stessa vibrazione, perché essi sono con noi e non riusciamo a vederli solo perché la loro vibrazione è più alta e sottile.

In una intervista tu asserivi di essere laica. Sei ancora certa di esserlo?

L. No, assolutamente. Diciamo che io tengo a ribadire, come Conan Doyle, la razionalità del mio pensiero laico inteso come libero da condizionamenti.

E quindi…

L. Frequento un ambiente dove la spiritualità è il nostro pane quotidiano, dove il senso del contatto con l’invisibile l’inenarrabile e il fantastico sono la possibilità per noi esseri umani di poter accedere attraverso la trascendenza, l’immaginazione a ben altro rispetto a quello che siamo. È questo in cui io credo fermamente.

Potremmo dire che c’è molto di più rispetto a ciò che noi vediamo e percepiamo?

L. Esattamente. Riuscire ad entrare in sintonia, nella medesima vibrazione, è come quando in un’orchestra ogni strumento si fonde per creare un’armonia unica. È così che succede anche quando ognuno degli attori piano piano si fonde con l’altro. Si avverte l’amore vero. Poi magari quando finisce questa magia ognuno torna a confliggere, però quei momenti di completa fusione sono meravigliosi.

Hai mai pensato ad un’idea drammaturgica che coinvolgesse detenute donne? Potresti realizzarla in futuro?  

L. No non l’ho mai fatto. Ti dirò la verità non mi è mai venuta questa idea. Intanto perché le donne sono molto diverse. C’è un turnover continuo, perché hanno pene detentive meno lunghe e quindi non si riesce a costruire uno spettacolo. Comunque non è mai scattato in me questo desiderio, non saprei dirti perché in realtà. Tieni presente che sono impegnata giornalmente in modo continuativo e coinvolgente sia dal punto di vista fisico che emotivo con i detenuti uomini e non ne avrei né la forza né il tempo.

M. Per altro, chi dovrebbe aiutare in qualche modo a realizzare questi lavori si rende sempre assente.

Ma nel tempo queste dinamiche sono cambiate, no?

M. Essendo uscito non saprei dirti. Comunque fintanto che ero in carcere, c’era gente che non faceva granché!

L. E Cinzia? Che ti ha trovato lavoro?

M. Beh lei è un caso diverso.

Chi è Cinzia?

M. È una ispettrice di reparto che, se non ricordo male, venne a Rebibbia nel 2019. Vidi subito che era una persona diversa. Sai è strano vedere una ispettrice donna in un reparto maschile. È inusuale. Lei parlava, si prodigava e un giorno mi aiutò addirittura con una spedizione che i miei cari mi avevano fatto e che era stata bloccata. Inoltre è grazie a lei che uscito dal carcere sono riuscito a trovare lavoro. Per me Cinzia ha fatto davvero tanto. Con gli altri invece non c’è mai stato un grande dialogo. Loro stavano per sé ed io per conto mio.

Marcello hai un sogno nel cassetto che vorresti realizzare e che mi puoi raccontare?

M. No. Al momento non desidero niente, perché ho la testa confusa. Non riesco a pensare. Sono uscito da troppo poco tempo. Pensa che solo dieci giorni fa sono tornato a Palermo, perché non mi sentivo preparato per tornare a casa. Ho aspettato due mesi prima di rivedere la mia famiglia, la mia città: non ero pronto.

Sei sposato?

M. Non sono sposato e non ho figli, perché sono entrato in carcere a ventisei anni ed ho terminato di scontare la pena ad Agosto di quest’anno, dopo ben ventidue anni. Quando sono tornato a Palermo ho visto che era tutto cambiato. Bambini che erano diventati adulti, ex compagni di infanzia che addirittura ora sono dei nonni… io invece sono rimasto quello che sono. La mia vita non è cambiata in meglio… forse neanche in peggio. Posso ritenermi una persona fortunata perché una persona come me, che esce dal carcere dopo ventidue anni ha una vita difficile, può incontrare tanti problemi. Anche istaurare dei rapporti è complicato. Diciamo che sono quasi una persona normale. Diciamo che posso dire di avercela fatta.  Sono uscito vivo.

Perché dici che sei quasi una persona normale? Tu sei normale.

M. Sì, lo sono ma non mi sento ancora preparato. È troppo poco tempo. A Palermo è completamente tutto diverso. Anche la gente che incontro a Palermo mi vede diverso. Mi vedono per quello che sono ora, un Marcello totalmente differente da quello di ventidue anni fa. Ora sono una persona tranquilla, mai nervosa. Per me ora va tutto bene, anche nel mangiare, nel compiere le azioni quotidiane come lavare e stirare. Sono totalmente cambiato. Prima ero una persona differente. Anche i problemi degli altri non mi interessavano.

Ora riesci a gestire le pressioni per esempio?

M. Sì, ora sì.

L. Marcello ora ha imparato ad esprimere i suoi sentimenti le emozioni che ha anche quando è andato a Palermo.

M. Sì parlavo con Laura, con Francesca e condividevo con loro la mia gioia. L. Però Marcello ha anche delle difficoltà. Per esempio quando era a Palermo mi telefonava e mi diceva: Laura mi sento strano, devo avere il tempo per potermi riconoscere, perché identificare se stesso è una cosa preziosa nella crescita personale, così come permettersi di manifestare la fragilità, la debolezza.

Mostrare la tua fragilità è un problema per te ora?

M. No, assolutamente. Mi sento una persona normale rispetto a questo. Talvolta vedo delle persone in metropolitana che sono arroganti. Se lo sono con me, la cosa non mi tocca minimamente, ma se vedo che si comportano male con gli altri mi dispiace, magari gli chiedo pure di scusarsi.

L. Sai Rita, il contatto fisico per i detenuti è un problema enorme, perché sono tutti codici di comportamento della vita carceraria che noi non conosciamo. Per esempio lo spintonamento in carcere è un affronto che deve essere immediatamente ricondotto.

M. Sì è vero, però in carcere sai immediatamente se questo è stato fatto volontariamente oppure è un qualcosa di casuale. I codici fisici in carcere sono importantissimi. In carcere gli abbracci non sono mai belli. Io per esempio ancora oggi non riesco a comprendere quando una persona mi abbraccia che tipo di abbraccio è. Non saprei dire se è bello oppure no.

Il consiglio più prezioso che hai avuto in questi anni durante la tua detenzione?

M. Beh consigli ne ricevi tanti. Quello più ricorrente e che mi ripetevano spessissimo era: stai attento quando uscirai, cerca di non ricadere. Te lo dicono tutti, però tu non lo accetti, perché chi te lo dice non ti conosce quindi è una frase che ti irrita e che non gradisci.

Laura tu hai conosciuto dei mostri sacri del cinema e del teatro. Cambieresti la tua vita di oggi per una carriera da attrice famosa?

L. Guarda Rita, è anche difficile poter rispondere a questa domanda, con una risposta scontata che dice “no non la cambierei”. Io credo che nella vita ci siano degli appuntamenti che in qualche modo ti aspettano.

Niente è un caso.

L. Per vie misteriose ho avuto molte volte la sensazione di percorrere una strada che fosse prestabilita, già disegnata. Anche con il teatro è stato un incontro fortunato. A 14 anni ho iniziato con il teatro amatoriale, poi il teatro politico degli anni ‘70 che si faceva nei circoli politici di sinistra. Poi la Bottega di Gassman, un caso anche quello: feci un provino non credendoci ed invece lavorai con lui. E poi l’incontro con Enrico e la nostra meravigliosa storia di 13 anni accanto ad una persona bellissima.

Quindi secondo te era già tutto scritto?

L. Sento di poter rispondere: sì. L’incontro con Enrico secondo me è stata una storia scritta da qualche parte, per come è andata, per quello che ci siamo scambiati, per come lo sentivo, per come lo sento tutt’ora, ancora così presente nella mia vita. Talvolta quando lavoro con la Compagnia, mi sembra di essere un canale dal quale Enrico parla. Sento che è così. Quindi, per rispondere alla tua domanda, ti direi che sono andata avanti affidandomi ad un flusso. In me del resto non c’è mai stata l’ambizione di essere una prima donna, sentivo piuttosto fin da piccola il bisogno di prendermi cura degli altri, che è poi anche un modo per prendersi cura di se stessi. Però chi frequenta alcuni luoghi cerca sempre di colmare dei vuoti, delle nostalgie. Pensa che l’ultimo lavoro di Enrico è stato proprio il Silenzio di Dio, un recital che voleva quasi essere una invocazione. Come dire: qualcuno risponda! Quello che ho trovato nel percorso della mia vita è stato di ritrovarmi in maniera naturale, avendo anche io i miei momenti di sofferenza e di disperazione. Come chiunque. Tuttavia e lì che ho sentito risuonare dentro di me la vocazione profonda dello stare con le persone, senza dare giudizi, senza dare etichette. Ritrovare l’umanità. Va bene così. Anzi: va benissimo così!

Di solito concludo le interviste con una domanda presa a prestito da uno spettacolo tratto da un libro di Dovlatov, La valigia: se doveste partire per un viaggio e non fare più ritorno, ed aveste a disposizione solo una valigia che può contenere non più di otto cose alle quali non rinuncereste mai, cosa ci mettereste?

M. Io sicuramente un orologio, la foto di persone a cui voglio bene, il libro del Gattopardo perché parla della mia terra, un paio di scarpe, un paio di pantofole.

Sono solo cinque cose…

M. Per me sono sufficienti. Io del resto in questi anni mi sono abituato ad avere poco, quindi per me l’importante è solo l’essenziale, perché ho vissuto in una cella dove avevo una pentola, una padella…

Ma in carcere vi cucinate da soli? Non c’è una mensa?

M. C’è il vitto della cucina per i detenuti, però c’è anche la possibilità di acquistare dei generi alimentari e cucinare da soli in cella. Solo alcuni possono farlo ovviamente. Quelli che non riescono li aiutiamo noi, ma si aiutano solo i meritevoli; chi non lo è per via di un comportamento scorretto nei confronti degli altri, mangia quello che passa il “Governo”, come dico io. Se invece è un amico che si comporta bene, è umile nelle sue difficoltà, un piatto di pasta lo troverà sempre. Non viene mai abbandonato.

Laura tu cosa metteresti nella valigia?

L. Un libro sicuramente anch’io. Penso che metterei un libro di Freud, un paio di occhiali per leggere, un paio di scarpe comode, le foto no… ce l’ho dentro di me, un orologio, le chiavi di casa… perché significano il senso di appartenenza, una mappa ed una bussola e forse una tenda per ripararmi… Ho cambiato idea sul libro, invece di Freud lo cambio con la Divina Commedia di Dante.

Che ne pensate del film con Albanese Cari Ragazzi?

L. Che non si sono inventati niente e oltretutto non è una storia vera. Non è vero il carcere, non sono veri i detenuti come descritti, non sono veri i rapporti con le Guardie Carcerarie. Non è quello il mondo. E poi questo film ci ha fatto anche un bel danno perché racconta di questa grande uscita…

M. Certamente, perché metti che un direttore di un carcere veda il film, gli viene il dubbio che non sia possibile prestare fiducia ai detenuti.

L. È una storia banale, raccontata in maniera banale, che potrebbe fare tenerezza, forse ridere, però non veritiera. Albanese è sicuramente molto bravo, però una storia che, francamente, per chi sta in carcere da tanti anni come noi e che lo vive professionalmente come noi per aiutare chi ha sbagliato a comprendere e a migliorare, sa benissimo che non è così.

Quali sono i prossimi appuntamenti?

L. Abbiamo in programma una uscita ancora non confermata per il 23 Dicembre al teatro Argentina, con lo spettacolo La formula Grübler. Stiamo aspettando la risposta dei Magistrati di Sorveglianza che purtroppo stanno decidendo in tal senso perché alcuni dei 24 attori della Compagnia non godono delle condizioni che gli consentirebbero l’uscita. Vediamo che succederà. Speriamo bene!

 

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