di Maurizio Fantoni Minnella –
15 Dicembre 1969- 15 dicembre 2023
In piazza Fontana a Milano esistono due verità incise sulla bianca superficie di due lapidi poste a poca distanza l’una dall’altra, metafora eloquente delle due Italie che si contrapposero anche con estrema violenza tra gli anni sessanta e settanta del XX secolo: quella democratica e antifascista e quella conservatrice e reazionaria, nutrita di ardori neo-fascisti e anticomunisti. Sulla prima lapide, posta dagli anarchici nel 1977, è scritto: “A Giuseppe Pinelli ferroviere anarchico ucciso innocente nei locali della questura di Milano. Gli studenti e i democratici milanesi”. Sulla seconda, voluta dalla giunta di centro destra nel 2007, la parola “ucciso” viene sostituita con “morto tragicamente”. (1) Grazie alle due verità conclamate e dunque, ad una doppia memoria storica, si è giunti finalmente alla pacificazione, alla negazione di ogni conflittualità sebbene questa non sia mai veramente scomparsa.
Esiste, infatti, una terza Italia, più grigia, più neutra, spesso qualunquista, quella maggioranza silenziosa sempre pronta ad accettare le verità trasmesse per bocca dei potenti, siano essi autorità dello stato o i media più importanti e accreditati. Ed è proprio attraverso quest’ultima che tale pacificazione trova il proprio sedimento e brodo di coltura.
Ad una lettura attenta del film di Marco Tullio Giordana Romanzo di una strage, 2012, tratto dal volume omonimo di Paolo Cucchiarelli (2), che narra le vicende e gli intrighi politici ed eversivi che precedettero e che seguirono alla strage di piazza Fontana, avvenuta il 12 dicembre del 1969, fatto tragico che indubbiamente segnò l’inizio della militanza e della lotta armate, scopriamo almeno tre protagonisti di quello scorcio di decennio emergere prepotentemente sulla scena: Giuseppe Pinelli l’anarchico, Luigi Calabresi, il commissario, e l’onorevole Aldo Moro.
Tuttavia i veri protagonisti, ma si potrebbe aggiungere, i colpevoli furono piuttosto i comprimari, coloro che mossero i fili della duplice tragedia, quella delle 17 vittime innocenti della strage e dell’anarchico Pinelli, ovvero gli uomini e servitori dello stato: questore, prefetto, questurini, quest’ultimi diretti responsabili del suo omicidio, oltre, naturalmente agli esecutori materiali della strage, i nazi-fascisti padovani Franco Freda e Giovanni Ventura e ai loro mandanti, pezzi deviati della Nato, dell’Ufficio Affari Riservati e l’organizzazione eversiva di destra nota come Gladio. Non per caso si cominciò a parlare di “strage di stato”, definizione che non a tutti piacque perfino a sinistra.
Nell’oscuro scenario di una Milano livida e segnata dagli scontri dell’”autunno caldo” si dipana la dramatis personae con al centro “l’indiziato Pinelli”, come recita la famosa canzone di Fausto Amodei, ferroviere e anarchico milanese, leader riconosciuto e rispettato del Circolo della Ghisolfa (3), nonostante si dichiarasse estraneo alla strage, fu ugualmente interrogato per tre giorni, non sapendo che si stava avvicinando la sua fine. Il regista Giordana lo immerge all’inizio in una luce apparentemente ambigua allo scopo di legittimare i sospetti avanzati dal commissario Calabresi, artefice e vittima al tempo stesso, come si vedrà successivamente, descritto come un onesto funzionario divorato dai dubbi eppure contraddittoriamente incapace di sottrarsi alla ragion di stato, ovvero alla menzogna di stato, nell’accettazione passiva della verità fornita dai propri superiori e dai sottoposti, coloro che al suo posto continuarono l’interrogatorio dell’anarchico fino al momento della caduta. E’ qui che risiede la debolezza del film, l’assenza di coraggio del regista nel non prendere posizione, nel non voler mostrare realmente che cosa accadde realmente in quel momento nell’ufficio dell’interrogatorio. Lasciando così nel pubblico il dubbio che davvero si fosse trattato di un suicidio. In altre parole, il regista e il suo personaggio finiscono per identificarsi nella sostanziale impossibilità di riconoscere la totale responsabilità dello stato italiano e delle sue istituzioni.
La terza figura che troneggia nell’oscurità di un’Italia diventata democratica senza essere davvero capace di esserlo, è quella di Aldo Moro che rivedremo più tardi con lo stesso volto di Fabrizio Gifuni nel film di Marco Bellocchio. Autorevole, dominante eppure esposto ad una fragile sensibilità vicina ad un umanesimo cristiano senza speranza. Già inviso da quella parte di Democrazia Cristiana fortemente refrattaria a cedere al compromesso con il Partito Comunista berlingueriano, Moro sembra essere il solo politico nelle stanze del potere a provare un sincero sdegno e insieme una pietas sofferta per l’oscura deriva in cui l’Italia era precipitata. Tuttavia il suo ruolo politico e forse anche il suo troppo cattolicesimo, finirono per imporre anche a lui la ragion di stato, ossia l’insabbiamento dell’inchiesta sulla strage che vedeva la pista neofascista come ipotesi certa, e che rivelata al Paese, lo avrebbe certamente portato nel caos!…
E’ possibile, infine, affermare che vi sia stato molto più coraggio nel difendere la verità dell’omicidio di stato in una piazza che nell’opera cinematografica, da molti peraltro acclamata, di un autore che in I cento passi, 2000, salutò la morte del compagno Peppino Impastato con bandiere rosse e pugno chiuso!…
Note
- Si tratta della medesima sostituzione semantica che utilizzò il protagonista di un film di Marco Bellocchio del 1973, un caporedattore fascista di un noto giornale conservatore quando impose al giovane giornalista di sostituire la parola “disoccupato” con quella di ”rimasto senza lavoro”, a suo dire “meno carica di valore polemico” e quindi, aggiungiamo noi, ideologico.
- Paolo Cucchiarelli, Romanzo di una strage, Ponte alle Grazie, Milano 2009
- Quartiere popolare di Milano celebrato anni prima da Giovanni Testori (1923-1993) nel romanzo Il ponte della Ghisolfa, 1958, che a sua volta offrì l’ispirazione a Luchino Visconti (1906-1976), che di Testori fu amico, nella realizzazione del film Rocco e i suoi fratelli, 1960. Il romanzo fa parte della pentalogia narrativa I misteri di Milano che comprende oltre al suddetto romanzo, La Gilda del Mac Mahon, 1959, La Maria Brasca, 1960, L’Arialda, 1960, Il fabbricone, 1961, editi in singoli volumi per i tipi di Giangiacomo Feltrinelli editore e recentemente ripubblicati nel 2012 in un volume unico dal medesimo editore.

