-di LUCA GIAMMARCO-
In un articolo di qualche tempo fa, proprio su questo blog, posi attenzione all’importanza che la comunicazione ha nel rapporto medico-paziente.
E sempre in un articolo, proprio quello precedente a questo, parlando di Patch Adams, cercai di raccontare come la sua rivoluzione fosse nel mostrare, anzi: nel far sentire vicinanza al paziente.
Ecco, da qui vorrei ripartire. Non per ripetermi, ma per dimostrare che la vicinanza umana ed empatica è l’essenza stessa dell’attività medica.
Inutile raccontarci sciocchezze: nella scienza come nella vita, sono le parole a farla da padrone. Nella vita per un discorso di relazioni interpersonali. Ma lo stesso vale anche per il mondo scientifico. Sia che si usino termini tecnici, ricorrendo a un gergo specialistico, sia che si adotti un registro divulgativo: in un caso come nell’altro, se mancasse la parola verrebbe meno ogni attività medico-scientifica.
Questo vuol dire che nella relazione che si istituisce fra dottore e paziente – sì, ci troviamo di fronte anche ad una relazione personale in questo caso specifico – è necessario creare più che uno spazio, un ambiente di vicinanza, quasi addirittura di familiarità.
Possibile mai che, soprattutto dopo gli eventi sanitari degli ultimi anni – il Covid per intenderci – in conseguenza dei quali tutto si è basato sulla distanza, si torni a parlare di vicinanza?
Oserei addirittura un termine coraggioso e più audace, apparentemente lontano dal gergo scientifico, almeno quello maggiormente usato: avere a cuore. Più che mai, proprio oggi, è necessario che il medico abbia a cuore i suoi pazienti. E non metaforicamente parlando, ma in senso letterale e operativo.
Mi spiego meglio. Quando un dottore si pone al servizio di coloro che cura, vuol dire che si predispone non solo ad ascoltarli, ma soprattutto a trasformare questa predisposizione in atti concreti. I quali non si traducono – non immediatamente – in prescrizioni da osservare con scrupolo, bensì in un’attitudine di sollecitudine, di premura e di interesse.
Il termine originario di cura vuol dire: stare in pensiero, essere preoccupati per. Da qui è immaginabile il significato della frase: il medico si prende cura del paziente.
E il distacco tanto a lungo praticato, in termini di prassi, nell’esercizio quotidiano della professione sanitaria che fine fa? Medicina e terapia stanno a significare: entrare in relazione intima col paziente, nei termini di una condizione soggettiva di entrambi gli attori di questo rapporto, preoccupandosi dell’altro che necessita di una cura. Ma facendolo non, non solo o non esclusivamente, in termini tecnici ed oggettivi, ma soggettivi.
Facendo riferimento alla medicina ippocratica, il medico deve essere mosso da premura e sollecitudine verso colui che gli è stato affidato, indipendentemente dal fatto che tutto ciò si traduca in una somministrazione di farmaci o in un percorso terapeutico vero e proprio.
Vuol dire, in sostanza, che per essere veri medici occorre che ci sia coinvolgimento pieno ed effettivo, sotto il profilo: emotivo, affettivo e intellettuale, nella condizione del paziente.
Vale questo discorso anche se tutto ciò non si tradurrà in medicine somministrate e terapie da seguire? Assolutamente sì.
La cura, l’aver cura prescinde da questi aspetti pratici. Mentre ha a che fare esclusivamente con il coinvolgimento di cui sopra.
Solo così le prescrizioni del medico, farmacologiche e terapeutiche, avranno un loro effetto. Perché esse saranno indicate al paziente, da parte del dottore, con piena cognizione di causa; e perché il paziente avvertirà che i trattamenti gli sono stati caldamente consigliati sulla base di un ascolto vero della sua condizione clinica. Un ascolto pieno, coinvolto e accudente.
Aver cura, prendersi cura, curare in senso medico vuol dire questo.
Il resto sono parole vuote o freddamente tecniche.

