di Maurizio Fantoni Minnella
Che cos’è uno “stato d’eccezione”? Una condizione transitoria la cui eccezionalità coniugata in senso negativo (come nel caso di calamità naturali, etc.) o positivo (come è il caso di cui ci occupiamo in queste righe), richiede un trattamento speciale fatto di regole talora alquanto restrittive delle libertà collettive e individuali. Se ne parlò molto durante l’epidemia di Covid-19 e la definizione utilizzata dal filosofo Giorgio Agamben (già presente nel testo fondamentale Homo sacer-1995), è ormai entrata a far parte del patrimonio terminologico comune. Ma proviamo dunque ad immaginarne l’applicazione ad un particolare periodo storico del XX secolo entro l’ampio spettro della produzione culturale, in particolare quella musicale e quella cinematografica. Si dovrà dire, innanzitutto che nell’arco degli ultimi decenni è venuto formandosi un nuovo immaginario collettivo in cui è facilmente riscontrabile una progressiva perdita della memoria storica a netto favore del “consumo” acritico del presente e delle sue peculiari espressioni, ma anche il precipitare del gusto verso il basso (non più mediato dagli strumenti della critica analitica), laddove, nell’eliminazione di ogni differenza tra alto e basso, entrambi perderebbero qualsiasi significato fino a negarsi l’uno con l’altro. “Stati d’eccezione”, quindi, sono quei periodi di maggior intensità creativa che nasceva dall’incontro-confronto dialettico con la Storia, con la esse maiuscola, con la netta propensione ad interpretare i percorsi della modernità attraverso i linguaggi della letteratura, della musica e della cinematografia, evidenziando quella che un tempo veniva chiamata politica degli autori, e altresì l’ansia di sperimentazione, di porsi all’avanguardia rispetto alle istanze del passato. Di tutto questo non sono rimaste che tracce, sia pure ancora riconoscibili, nell’immaginario delle nuove generazioni che non si affannano troppo per ricercare l’origine di quell’energia creativa e dei suoi migliori risultati che segnarono non soltanto almeno due decenni della seconda metà del ‘900 ma l’intero arco della prima metà di quel secolo.
La musica
Nell’entrare nel vivo del discorso musicale, ciò che possiamo dire essersi sedimentato nel nuovo immaginario collettivo è l’idea che la cosiddetta “modernità in musica” abbia lasciato poche tracce a meno che con tale definizione non si vogliano considerare le musiche popolari sviluppatesi dal secondo dopoguerra in avanti. Il rock, per esempio, che vede oggi nei Beatles i veri numi tutelari e nei Pink Floyd, una sorta di classicità paragonabile a quella rappresentata in passato da Mozart o da Beethoven. A precederli era stata quell’ampia porzione di musica leggera oggi largamente rivalutata come espressione artistica popolare attraverso la forma-canzone, a sua volta debitrice, in gran parte, al belcanto operistico ottocentesco. Se negli anni ’70 del ‘900 sarebbe stato improbabile per un giovane attento ai diversi fenomeni musicali definire come musica leggera il rock più avanzato, oggi, al contrario, assistiamo ad un tale livellamento in cui ogni forma ed espressione musicale è equivalente ad un’altra e tutte vengono rubricate nell’ormai iper-categoria del “popolare”. Chi sa di non appartenervi, sa anche di rischiare, prima o poi, di estinguersi. Come sta accadendo con la musica colta di gran parte del secolo scorso che scompare, salvo poche eccezioni, dai programmi dei concerti, dalle scelte della stragrande maggioranza degli ascoltatori, così come allo stesso modo gli studi sulla musica colta nelle sue diverse declinazioni, dagli scaffali delle librerie. Ecco che allora non sembra troppo azzardata la definizione di “stati d’eccezione” per quei fondamentali passaggi storici ed artistici il cui effettivo superamento ha significato in prevalenza la loro cancellazione, invece del confronto con la grande sia pur controversa eredità, nella fretta di ritornare ad una sorta di normalizzazione, o se si preferisce, di regressione, cosa che è avvenuta parimenti negli ultimi decenni nel lungo percorso di trasformazione politica dei paradigmi ideologici elaborati nel XX secolo.
Il cinema
Nella sua breve storia e nella sua fragilità estetica il cinema (nato come spettacolo popolare e sviluppatosi come industria dello spettacolo), ha accumulato un immaginario filmico prevalentemente incentrato sul cinema hollywoodiano, sui suoi generi di maggior successo, oppure sulla commedia come genere d’evasione. Stato d’eccezione fu dunque, quando il cinema scoprì di essere anche un’arte non seconda a nessun’altra, attraverso la poetica di ogni singolo autore in grado con la propria opera (nella sua eterna imperfezione), di interpretare il proprio tempo o descrivere l’animo umano nelle sue molteplici sfaccettature. Talvolta servendosi della lentezza come stile e misura dell’aderenza mimetica all’agire umano e allo scandaglio degli stati d’animo. Politica degli autori, cinema d’autore, cinema d’arte, tutte definizioni egualmente corrette per segnalare l’evoluzione di un’arte, oggi purtroppo cadute in disuso per la prematura scomparsa di settori di pubblico interessato a forme ed espressioni autoriali o d’avanguardia, o perfino in disgrazia dal momento che, secondo alcuni, non vi sarebbe mai stato un cinema d’autore se non nell’illusione dei critici cinephile e negli intellettuali ma soltanto cinema tout court senza distinzione di generi o di qualità che ciascun spettatore possa o voglia intendere.
La letteratura
In letteratura, infine, si vuole dimenticare il concetto stesso di letterarietà con il semplice fine di avvicinare il più possibile il pubblico alla cosiddetta parola scritta in forma di romanzo o di racconto. Basterebbe analizzare l’ampio fenomeno del giallo, del noir non come rivalutazione ma piuttosto come genere letterario globale, canovaccio cui tutti farebbero meglio a tendere. Lo abbiamo già visto in altri settori dell’odierno vivere sociale questa sorta di “binario unico”, non certo un diktat (il mercato capitalista non lo permetterebbe), ma piuttosto un orientamento certo a cui molti scrittori, nel seguire le lusinghe del mercato, si sono resi sempre più disponibili. Sembrerebbe quasi che ogni storia raccontata debba forzatamente contenere uno o più crimini e possibilmente un assassino per essere credibile o per accontentare la curiosità morbosa del pubblico o ancora, che per descrivere la contemporaneità, la chiave interpretativa più efficace sia quella del noir: delitto-indagine-catarsi. Pare inoltre ormai impossibile avventurarsi nel malessere delle moderne società metropolitane senza prima munirsi di tutto l’armamentario di investigatori geniali, commissari, poliziotti e di criminali efferati. Non a caso esiste un volume di atti del primo convegno sul noir italiano dal titolo: Il giallo italiano come nuovo romanzo sociale. In realtà si tratta perlopiù di una scorciatoia per un probabile successo di pubblico. Oggi infatti si scrivono libri noir a tutte le latitudini. Ogni scrittore ha il suo investigatore ed ecco il nuovo marchio di fabbrica. Si tratta del puro effetto della globalizzazione sulla letteratura!..…Un altro, non meno evidente è quello del neo-soggettivismo del cosiddetto romanzo di autofiction. Fino a pochi decenni fa il noir o il giallo occupavano dignitosamente una nicchia dedicata a un genere di letteratura minore, oggi invece, sono un vero e proprio diktat!. Ben più di ieri, paradossalmente, sarebbe giustificato il ricorso al cosiddetto “grado zero della scrittura”. Contro tutti gli artifizi narrativi oggi messi in campo per sorprendere e la folla catatonica di personaggi in continuo riciclo… Finalmente, il silenzio della scrittura!…
Ad esercitare, infine, la memoria del cinema come arte individuale e come cultura, restano, oltre ai festival (grandi esempi di autoreferenzialità nel perpetuare un rituale di condivisione esclusiva), ormai soltanto i pochi studiosi che si avventurano ancora nelle più ardite (a volta perfino pretenziose) analisi filmiche, scandagli comparativi tra il cinema e le altre discipline, ampi ed esaustivi ritratti d’autore o di singoli film, senza, tuttavia, che intorno al cinema nascano e si sviluppino come in passato, dibattiti sul linguaggio, sugli stili o sulle singole correnti. Si naviga ormai in mare aperto, evitando maree e tempeste, con il pericolo sempre in agguato, che quest’arte così squisitamente novecentesca, finisca definitivamente nel mare dell’indifferenziato, o di quelle cose di cui fare tranquillamente a meno senza più sensi di colpa di natura intellettuali.!

