di Maurizio Fantoni Minnella
Le recenti dichiarazioni dello storico medievalista Alessandro Barbero (che chiude il convegno a Palazzo Ducale dal titolo “L’Impero di Genova dal Mar Nero all’Atlantico), secondo il quale la Superba sarebbe una città “meravigliosa” e che “starebbe tornando ad essere famosa in tutto il mondo”, ci offrono l’occasione per una disamina sulle ragioni del suo ritardo nell’essere annoverata tra le principali città d’arte italiane.
Ancor più la possibilità di chiederci come sia stato possibile che il giornalista di una televisione locale, al pari di un grido di dolore, abbia chiesto a Barbero, in virtù della sua fama mediatica, di diffondere ovunque la conoscenza di questa città che, se davvero meravigliosa, meriterebbe ben altra notorietà non solo in Italia ma anche all’estero. Ci troviamo di fronte al paradosso di affidare ad un solo studioso per quanto di gran fama il destino turistico di una città che fino a pochi decenni fa difettava di una presenza turistica di qualche rilievo rispetto alle due Riviere, limitandosi ad essere luogo di passaggio per chi s’imbarcava verso altre destinazioni. Quasi che la città non avesse le risorse necessarie per presentare al mondo il proprio patrimonio artistico, paesistico e urbano o per troppa riservatezza, non volesse mostrarlo ai foresti. Ma facciamo due, tre passi indietro. Quali sono le cause dell’isolamento della Superba dalle rotte del turismo culturale e al tempo stesso di quello di massa? Due opzioni che oggi si contenderebbero il primato della “conquista” della città, mai coniugabili insieme in quanto sostanzialmente antagonistiche. In una prospettiva di gestione neo-liberista del territorio e delle sue risorse, quale è quella dell’attuale amministrazione comunale, l’incentivazione del turismo di massa di stampo croceristico (quello, in effetti, di maggior prossimità), avrebbe sicure ricadute anche nel difficile settore culturale (come a dire, in parallelo, che l’incentivare la ricchezza di pochi avrebbe altrettante ricadute economiche sulle masse assai meno abbienti!). Al contrario sappiamo che non è affatto così: il turismo culturale deve passare necessariamente attraverso canali diversi, ben più legati ad un’immagine culturale solida della città che non a elementi spettacolari di richiamo isolati, certamente in grado di suscitare meraviglia ma, in quanto organismi autoreferenziali, di esaurire in se stessi l’interesse effettivo per la città, come, ad esempio, fu per molti anni l’Acquario al Porto Antico e oggi, magari, la funicolare che porterebbe masse di visitatori a Forte Begato sui crinali del Righi.
Il fatto è che nel corso del XX° secolo alcuni importanti fattori materiali e culturali hanno determinato la fisionomia della città nell’immaginario dei foresti, come si dice a Genova, non troppo diversa, in fondo, da quella formulata dagli stessi genovesi. Ovvero di una città scontrosa, la cui definizione di Superba si addice più al suo passato lontano che al presente, ben poco avvezza ad essere invasa da orde di turisti distratti o petulanti. Piuttosto essi coltivano da sempre una sorta di orgoglioso, riservato e perfino identitario provincialismo che si spiega soltanto osservando la tripartizione della città: centro-levante-ponente: ognuno si sente parte di questa entità, quartiere per quartiere, delegazione per delegazione, anziché abbracciare l’idea della città metropolitana che tutto comprende nella propria globalità. Ma più che sui caratteri dei genovesi vale soffermarsi sul profilo di una città che innanzitutto non ha mai goduto di una pubblicistica che ne mettesse in evidenza i valori architettonici, i singoli manufatti e il vasto patrimonio pittorico, soprattutto di epoca barocca (el Siglo de Los Genoveses, fu appunto, il secolo di maggior fioritura artistica della città) e quello architettonico seicentesco rappresentato dalla Via Aurea oggi Garibaldi, armonioso insieme di palazzi, cortili aulici e silenziosi, musei, gallerie degli specchi, giardini pensili e ninfei, ritenuta tra le più belle strade d’Europa. Ciò è da imputare ad una miopia critica e storiografica alimentata, in special modo nel periodo tra le due guerre, da una visione meramente accademica atta a valorizzare alcune eccellenze del paesaggio urbano italiano (con particolare enfasi dedicata alle opere di quelle città destinate ad ottenere lo scettro di città d’arte come sono giunte sino ad oggi), tuttavia ignorando una delle peculiarità fondamentali di Genova, ossia il corpo della città nella sua multiforme fisionomia e stratificazione. Questo perché nell’epoca dei grandi diradamenti urbanistici, non era importante la città nel suo insieme ma il singolo monumento isolato dal contesto in cui fu realizzato. Si può quindi affermare che fu proprio il concetto di monumentalismo, malattia infantile dell’Italia accademica, trasferitasi poi nell’immaginario collettivo, tra le cause del mancato appuntamento delle cosiddette “città d’arte”, (definizione di per sé alquanto tronfia), il cui destino, a giudicare da quanto sta accadendo oggi, parrebbe quello di una sempre più massiccia gentrificazione dei centri storici, dell’assuefazione a flussi turistici sempre più massicci tali da modificare gli stessi equilibri economici (aumento dei prezzi, scomparsa degli alberghi tradizionali a favore di una sempre più “airbnbinizzazione” dell’accoglienza etc.). Altri importanti fenomeni socio-economici e urbanistici hanno contribuito ad una sorta di “schermatura” della città rispetto al suo straordinario potenziale visivo. In primo luogo la portualizzazione di gran parte del litorale urbano in direzione di Ponente già dalla seconda metà dell’‘800. Tale fenomeno nella sua “naturale” evoluzione contribuì a formare un diaframma di cancelli daziari, di separazione tra la vita urbana e quella portuale (una città nella città), tra la città vecchia e il mare, accentuata pur per ragioni logistiche, dalla realizzazione nel 1964 della cosiddetta strada sopraelevata il cui annunciato e non troppo futuro abbattimento divide ancora la città tra coloro che ne avvertono ugualmente la necessità viabilistica e quanti invece, sognano da lungo tempo la sua scomparsa, a favore dell’annunciato tunnel sub-portuale. Se il porto storico separava la città dal mare (oggi ritrovato grazie al progetto di Renzo Piano che apre agli specchi d’acqua al prezzo di una evidente musealizzazione di moli, docks, argani, gru e altre infrastrutture), la strada sopraelevata, taglio orizzontale d’acciaio che mortifica la civica architettura della Ripa Maris, è il nuovo diaframma tra la città e il nuovo porto, che segna il passaggio epocale dal lavoro specializzato al divertimento generalizzato. Il regime fascista, ad esempio, vide in Genova non solo il più grande porto italiano ma anche la città dell’acciaio e questo diventò un marchio che la città non riuscì o forse non volle mai togliersi. Inoltre il binomio nefasto di modernizzazione da un lato e di diradamento edilizio dall’altro, (solo apparentemente per ragioni di igiene pubblica), contribuiranno alla demolizione e scomparsa della parte sud del sestiere di Portoria, ossia il medievale borgo dei lanaioli, in prossimità della duecentesca Porta Soprana, dove sopravvive isolata e sparuta la presunta casa di Cristoforo Colombo (il padre, infatti, apparteneva alla corporazione dei lanaioli), oggi oggetto di un turismo di massa rivolto più che altro alla figura leggendaria del grande navigatore, peraltro sproporzionato rispetto alla consistenza storica del manufatto. E’ ormai storia comune che il piccone demolitore del ventennio abbia fatto danni ingenti più altrove che a Genova dove ha lasciato una piazza incompiuta compromessa da un orribile parcheggio proprio in faccia a Porta Soprana e un’altra che è rimasta la più grande dell’intera città, anch’essa sacrificata alle automobili. Così per piazza Cavour, piazza Matteotti, piazza Caricamento, Porta Siberia al “Porto antico” , ingenti colate di metallo che si aggiungono a quelle di cemento con cui si costruivano in costa sulle colline casamenti e interi quartieri per i meno abbienti della città, come Oregina o il Lagaccio. Sono infatti gli anni del secondo dopoguerra a determinare il maggior numero di demolizioni di quartieri ed edifici storici. Pensiamo al Teatro Paganini in via Caffaro, demolito utilizzando il solito alibi delle bombe della guerra, alla incongrua sostituzione di un palazzo della Ripa Maris colpito dalle bombe con quello che oggi viene perentoriamente chiamato “grattacielo di Caricamento” (!), al Teatro Carlo Felice, fortemente lesionato durante gli attacchi aerei che dovette attendere oltre quarant’anni prima di ritornare ad essere l’epicentro della cultura musicale cittadina, dopo una serie di restauri divenuti oggetto di aspre polemiche, in Via Madre di Dio, importante sobborgo medioevale popolare fuori porta sulla via che scende verso il mare sottostante il ponte settecentesco di Carignano, un quartiere già compromesso dalle bombe della guerra, tuttavia ancora parzialmente in piedi. Si dovrà dolorosamente attendere i primi anni settanta del secolo scorso per trovare ruspe, bulldozer e gru in azione per vederne la fine (come raccontava, anch’egli testimone oculare di quanto avveniva nella “fossa”, l’amico don Andrea Gallo nell’autobiografia Io non mi arrendo, 2013 scritta insieme all’autore di queste righe), a cui seguiva la lenta ma inesorabile “deportazione” dei suoi abitanti in quartieri sempre più lontani. Già si era compiuto da almeno un decennio il sacco di Portoria, con lo sbancamento del colle di Piccapietra e la conseguente cancellazione di un lembo storico importantissimo della città vecchia del quale rimangono soltanto poche tracce (un antico ospedale seicentesco incapsulato in un moderno edificio in acciaio, la chiesa barocca di Santa Croce e San Camillo de Lellis e poco altro), allo scopo dichiarato di dotare la città di Genova di una city degli affari come è avvenuto su ben altra scala nella ricca Milano. Mentre il litorale ponentino di Cornigliano, un tempo luogo ameno di villeggiatura con il suo litorale, veniva scandalosamente sacrificato e con esso il neogotico Castello Raggio, costruito su progetto di Luigi Rovelli e demolito nel 1951 per la costruzione di un ecomostro, in omaggio ancora una volta all’acciaio, ovvero l’immenso complesso industriale Italsider, con altiforni e cokeria, le cui pesanti emissioni ebbero per molti decenni conseguenze nefaste sulla popolazione e che consacrò Genova come città industriale, terzo lato del triangolo con Milano e Torino. L’elogio della industrializzazione e della “portualizzazione”, unita alle pur sacrosante lotte operaie e della lotta armata del brigatismo rosso negli anni settanta, e infine la tossicodipendenza diffusa, consegnavano la città a un destino poco incline al turismo, neppure quello culturale. Su Genova era come fosse calato un velo di cupezza e di grigiore che nemmeno la specialissima luce di questa città ha potuto dissolvere. Ancora nei primi anni ’80 la città pullulava di cantieri, di impalcature, primo tra tutti quello del futuro Palazzo Ducale che da Tribunale si sarebbe trasformato in luogo di incontro e di cultura e via San Lorenzo si presentava ancora come una sorta di “camera a gas” a cielo aperto. Una città intristita di cui, tuttavia, ad un occhio sensibile e attento non sarebbe sfuggita la suggestiva bellezza del suo paesaggio urbano. Ma si tratta pur sempre di voci isolate, non ultima, quella dello storico Barbero. Si dice che Genova sia una città per pochi in grado, appunto, di comprenderne bellezza e fascino che a loro volta ai più non apparirebbero così sfacciatamente, come accade con città come Napoli, Roma o Firenze. Una città che invece di crescere demograficamente decresce negli ultimi trent’anni fino a perdere 250.000 abitanti. Ma chi ha stabilito che la decrescita demografica sia sempre un segno di decadenza o di qualità della vita inferiore? Sappiamo, purtroppo, che oggi contano soltanto i numeri, che un luogo inteso come città, museo chiesa e altro ancora, deve essere venduto come una qualsiasi altra merce e quindi, ben vengano per gli attuali amministratori, orde di turisti (a riprova del fatto Genova “tira”, al pari di uno spettacolo musicale o di una mostra preconfezionata altrove, o di un qualsiasi spettacolo di massa). E l’oggi appare sempre più incerto, privo di una qualsivoglia idea di ripensamento organico degli spazi urbani, di una rete metropolitana più ampia ed efficiente, di una politica culturale ad ampio raggio capace, ad esempio, di dotarsi di un nuovo, moderno museo di arte contemporanea e di spazi per eventi pubblici oltre le logiche del “genovacentrismo” rappresentato dall’egemonico, pur tuttavia prestigioso e insostituibile Palazzo Ducale. Oltre a una maggior funzionalità e fruibilità degli spazi museali e degli Istituti culturali dove già si segnalavano importanti defezioni come La “Casa Paganini” in Castello, sede per poche stagioni di convegni ed eventi musicali, esempio tra i più eclatanti, di pubblica miopia e cronica sfiducia delle risorse culturali della città (sentimento diffuso che spinge il genovese in visita alla vicina Milano a sentirsi come il Tramaglino di manzoniana memoria!), oppure, in tempi più lontani, la scomparsa di uno dei più importanti musei della città, l’”Americanistico Lunardi”, generato dalle ampie collezioni dell’arcivescovo ed etnologo monsignor Federico Lunardi (1880-1954), che vantava una delle più significative collezioni di arte Maya in Europa, oggi scomparsa, già a villa Gruber De Mari in Castelletto.
A coloro, infine, che si aggirino con vocazione di flaneur o più semplicemente, di semplici cittadini o visitatori della città vecchia, magari inseguendo la stella di Fabrizio De Andrè, troveranno cancelli e cancelli di metallo a chiusura ermetica degli antichi caruggi. Uno scenario desolante che, oltre a privare i cittadini del diritto di transitare ovunque sul suolo pubblico, offrendo invece a taluni residenti in prossimità degli stessi caruggi, la “privatizzazione” di spazi pubblici, interrompe la fruizione della città come labirinto, matrice essenziale dell’urbanistica medievale genovese. Tutto questo nel nome della sicurezza e dell’esclusione.
Chissà se il compianto, angelicamente anarchico Faber avrebbe approvato una simile barbarie?…
