-di LUCA GIAMMARCO-
Da parecchi anni – inizio ad avere la mia considerevole età – sento parlare dell’urgenza, se non della necessità, di una riforma del sistema sanitario nazionale.
Ciò che abbiamo passato a iniziare dal 2020, per noi che lavoriamo nelle strutture ospedaliere, è ancora vivo e presente sulla nostra pelle. Non solo per questioni cliniche, ma anche di gestione di situazioni al limite dell’umano.
I media ne hanno parlato. Più o meno tutti sono giunti alla conclusione che il sistema della sanità pubblica così com’è stato e come è non può più andare avanti.
Il che è vero, verissimo e sacrosanto.
Ma occorre fare attenzione.
Perché quando si parla di sanità pubblica, solitamente, si intende l’organizzazione degli ospedali – o di strutture private convenzionate col sistema nazionale – per ciò che concerne: rapidità di avere accesso, da parte del paziente, ad analisi diagnostiche di una certa importanza e urgenza; organizzazione ai massimi livelli per consentire, quando necessario, tempestivi ricoveri.
Se si vuole, tutto ciò rientra nella logistica della sanità pubblica. Porvi la meritata attenzione è quanto di più giusto e sacrosanto.
Ma una struttura ospedaliera articolata nei vari reparti che la compongono, prima ancora che organizzata secondo criteri razionali di efficienza ed efficacia, è sul personale medico e paramedico che si regge.
È pressoché impossibile pensare un ospedale efficiente e votato alla cura del paziente senza dottori e infermieri, per non parlare dei tecnici di laboratorio e di diagnostica per immagini.
Una riforma della sanità pubblica, quando ci sarà, dovrà iniziare da qui: da medici e paramedici che prestano servizio nei reparti giorno e notte per curare malati più o meno gravi: dovrà iniziare da qui, una riforma sanitaria, prima ancora che dallarazionalizzazione delle strutture ospedaliere, per essere presa realmente sul serio.
In che termini? Ovviamente nelle condizioni di lavoro. E su questo non ci piove.
Ma, ad essere schietti e veritieri, bisognerebbe pensare una riforma della sanità pubblica innanzitutto nelle modalità di studio e formazione del personale medico e paramedico.
Per come si è andato strutturando in questi ultimi venti anni l’insegnamento universitario della medicina, le varie facoltà sparse in Italia – con le dovute eccezioni, che ci sono – stanno sfornando una serie di professionisti potenziali che mancano di assoluta preparazione sul campo pratico e, ancor peggio, di passione.
È un discorso troppo campato in aria? Poco pratico? Forse sì, se è nell’immediato che pensiamo.
Ma se, invece, ampliamo l’orizzonte, ci renderemo conto che questo discorso va al cuore del problema.
In termini più concreti: costringere gli studenti a fare esami tramite somministrazione di quiz invece che ad un’esposizione orale e ben argomentata; metterli in condizione di studiare le varie discipline della medicina in modo separato, a compartimenti stagni, senza che vi sia una visione d’insieme; non far fare loro esperienze di apprendistato prima ancora del periodo di specializzazione, di modo che possano applicare e consolidare le varie teorie apprese; ma soprattutto, non valutare se lo studente medico o paramedico, all’inizio del suo percorso, è realmente appassionato nella cura del paziente (attenzione: del paziente e non solo di sue malattie o patologie), cercando di comprendere quali motivazioni lo spingono a una scelta di vita così delicata,importante e del tutto coinvolgente: se manca tutto ciò, questa attenzione primaria all’individuo, non vi potrà essere una vera riforma sanitaria.
Ciò che implicherebbe anche una riforma del sistema universitario così come quello del lavoro.
Una riforma sanitaria realistica, non può pensarsi in modo separato dal resto del sistema formativo e lavorativo.
Come? Nel solo possibile: riportando al centro la persona.
La persona come studente. La persona come futuro medico o paramedico. La persona come paziente. La persona come cittadino.
E tutto ciò non in termini di gerarchia, ma di simultaneità. Perché la persona è tale, sia da paziente che da medico che da cittadino.
Senza tale presupposto, di quale riforma (sanitaria e non solo) si può parlare?
