Di Amedeo Gasparini –
Il Giacomo Matteotti (Bollati Boringhieri 2024) di Federico Fornaro ripercorre la vita del politico socialista a cento anni dalla morte e si propone di ricordarne l’eredità. Sarebbe auspicabile che le commemorazioni del centenario della sua morte offrano un’opportunità per rivalutare il pensiero di Giacomo Matteotti, scrive l’autore. Le sue riflessioni sul pacifismo e sugli Stati Uniti d’Europa restano rilevanti ancora oggi. Simbolo dell’antifascismo, mito popolare, alimentato durante il regime fascista non solo dagli esuli ma anche dalla popolazione comune, Matteotti contribuì al successo dei socialisti nelle elezioni per l’Assemblea Costituente (1946), dove il Psiup ottenne il 20,7 per cento, superando il PCI a (18,9 per cento). Il mito di Matteotti si diffuse nel Dopoguerra e ancora oggi rimane una figura pubblica di rilievo nel panorama italiano del Novecento, con strade, piazze, corsi e giardini a lui dedicati. La fine di Matteotti provocò un profondo sconvolgimento e ispirò molti giovani all’azione.
Nel luglio del 1924, al PSU si unirono Carlo Rosselli, Sandro Pertini e Giuseppe Saragat in agosto. Ma la storia drammatica di Matteotti ispirò anche poeti e scrittori come George Orwell, Marguerite Yourcenar e Leonardo Sciascia. Il libro si apre con un ricordo di Filippo Turati, un anno dopo l’omicidio di Matteotti: «L’accento tenuemente, dolcemente veneto, non venezievole, ignorava la sdolcinatura. Mosse e sorriso di ragazzo. Fronte, e talora cipiglio, di studioso e pensatore». Fornaro ricorda l’ambiente culturale in cui Matteotti crebbe. A Fratta Polesine, alla fine dell’Ottocento, la povertà estrema e la mancanza di diritti dei lavoratori influenzarono profondamente il suo impegno sociale e politico. Matteotti nacque il 22 maggio 1885; i suoi genitori si erano sposati dieci anni prima. I Matteotti venivano da Comasine, nel Trentino austriaco; poi si trasferirono in Veneto per lavoro stagionale. Giacomo non era popolare tra i compagni; la sua ricchezza lo faceva sospettare.
«Ad alcuni critici e agli avversari politici appariva incomprensibile che un giovane fortunato e studioso, con alle spalle un patrimonio di tutto riguardo, potesse prendere le difese dei più deboli, degli ultimi, con l’obiettivo dichiarato di voler contribuire alla realizzazione di un mondo più giusto e una società socialista», scrive Fornaro. All’interno del partito, molti lo consideravano un aristocratico a causa del suo comportamento riservato e delle sue argomentazioni precise. Nonostante la sua famiglia avesse interessi commerciali, Giacomo non fu mai attratto da questo settore, mostrando fin da giovane una propensione per lo studio, influenzato dal fratello maggiore Matteo Matteotti, punto di riferimento importante per lui. Eccelleva negli studi giuridici e coltivava una profonda passione per l’arte e la musica. Il suo primo articolo su posizioni riformiste apparve su La Lotta, l’organo ufficiale del PSI di Polesine.
Contrapponeva alla vulgata popolare per cui era inutile darsi da fare, lottare per migliorare le condizioni di vita, il dato oggettivo che «per merito dei socialisti avete leggi sul lavoro delle donne e dei fanciulli, sugli infortuni sul lavoro; c’è una cassa nazionale di previdenza; oggi avete il diritto di mandare a casa i deputati ricchi e di sostituirli con degli operai intelligenti che curino realmente i comuni interessati; così potete guardare sereni in faccia all’avvenire che sarà di giustizia, di eguaglianza, di pace». Il riformismo di Matteotti era associato alla tradizione del socialismo agrario. Pur mantenendo una posizione distaccata dalla Chiesa, Matteotti manifestava rispetto per i credenti. Nel 1908 entrò a far parte del consiglio comunale di Fratta Polesine. Al XIII Congresso del PSI a Reggio Emilia (luglio 1910) ci fu fu un acceso scontro tra la sinistra rivoluzionaria guidata da Benito Mussolini e i riformisti di destra.
Matteotti si oppose fermamente all’avventura africana di Giovanni Giolitti fin dall’inizio. Inoltre, propose che l’appartenenza alla massoneria fosse considerata incompatibile per i socialisti. Matteotti fu un neutralista della prima ora divenne interventista. Dimessosi per questo dalla direzione de l’Avanti!, fondò Il Popolo d’Italia. Il 29 novembre 1914, la Direzione del PSI ratificò all’unanimità l’espulsione di Mussolini dal partito. Matteotti era convinto che un milione di proletari organizzati in Nord Italia avrebbero potuto frenare le tendenze militariste e nazionaliste. Manifestò la sua delusione per la debolezza del movimento socialista e operaio nel contrastare gli interventisti e la decisione finale del governo a favore della guerra. Per le sue posizioni, Matteotti divenne il bersaglio principale del Corriere del Polesine, che lo accusò di antipatriottismo il 3 ottobre 1914, con un articolo intitolato “L’antitalianità del dottor Matteotti” e il 5 febbraio 1915 “Il dottor Matteotti deve scomparire”.
Fornaro ricorda che nella maggioranza della dirigenza socialista, maturò la convinzione che la guerra avesse avviato una nuova fase rivoluzionaria. Matteotti scrisse due articoli sulle agitazioni popolari contro il carovita, sostenendo che dovevano essere condotte da «lavoratori organizzati e socialisti coscienti», invitando i comuni socialisti a farsi parte attiva con la costituzione di «enti collettivi di consumatori per l’acquisto e la rivendita delle merci al minimo prezzo di costo». Mussolini, che aveva fondato i Fasci italiani di Combattimento il 23 marzo 1919 a Milano, appoggiò i moti popolari post-bellici nel tentativo di prendere il comando di quel miscuglio di protesta, paura, nazionalismo e violenza che si stava diffondendo in tutta Italia. Ma anche per le sinistre rimaneva la questione di come prendere il potere. Secondo i massimalisti, la conquista violenta del potere politico da parte dei lavoratori dovrebbe segnare il passaggio del potere dalla classe borghese a quella proletaria.
Nel 1919 venne adottato un sistema elettorale proporzionale con scrutinio di lista, che ha acuito le difficoltà del blocco social-liberale. Nel frattempo, Matteotti divenne il punto di riferimento del gruppo socialista sull’economia. In Parlamento, si distinse per la sua straordinaria capacità di lavoro e per lo studio sistematico dei documenti. Non esitava a criticare l’impianto ideologico della classe dirigente liberale e non risparmiava le critiche ai cattolici del PPI. Riteneva che i fondi pubblici dovessero essere spesi con parsimonia. Si scontrò duramente con Benedetto Croce, ministro della Pubblica istruzione del V governo Giolitti, dopo aver definito lo stato dell’istruzione in Italia vergognoso. In numerose occasioni denunciò gli abusi e le violenze subite dai socialisti. Nell’aprile del 1921: «I fascisti si sono dati alla caccia all’uomo e non vi è giorno in cui non inseguano, affrontano, percuotano, maltrattano coloro che sanno di appartenere alle organizzazioni socialiste».
Negli stessi giorni Turati scriveva che «la violenza della guerra civile continua a disfrenarsi con crescente brutalità. Non c’è, ormai angolo di terra italiana su cui non si allunga la scia sanguinosa». La “Statistica dei morti e feriti nelle agitazioni avverse durante l’anno 1920” aveva certificato la violenza politica del tempo. Matteotti: «La verità è, onorevoli colleghi, che codesta violenza è esercitata da voi per interesse di classe, per interessi economici lesi, e non contro fatti politici, o in risposta a provocazioni e a violenze singole di lavoratori». Fornaro ricorda che Matteotti accusò apertamente il governo Giolitti di aver rinunciato al ruolo di «rappresentante della legge uguale per tutti» e «repressore di ogni violenza»; denunciando la pericolosità del piano giolittiano di «fiaccare la forza socialista nel paese mediante l’offensiva delle bande fasciste». Nell’aprile 1921, i fascisti minacciarono di morte e di bombe la casa di Matteotti a Fratta Polesine.
I trentasei giorni della campagna elettorale (dal 8 aprile al 14 maggio 1921) furono segnati da 105 omicidi e 431 feriti. Le elezioni del 1921 si svolsero in un clima di violenza diffusa. Mussolini ottenne un folto gruppo di 535 deputati su un totale, entrando così nelle istituzioni parlamentari. Matteotti si oppose strenuamente a un ritorno di Giolitti, per il quale nutriva una pessima opinione. Alla guida dell’esecutivo fu posto un giolittiano di seconda fila, il piemontese Luigi Facta, che ottenne il sostegno da parte di fascisti e nazionalisti. Il governo deliberò il 28 ottobre 1922 la proclamazione dello stato di assedio. Tuttavia, a sorpresa, il re non controfirmò il decreto e Facta si trovò costretto a dimettersi. Dopo un tentativo fallito con Antonio Salandra, Vittorio Emanuele III affidò a Mussolini l’incarico di formare un nuovo governo, rendendolo il più giovane presidente del consiglio dall’Unità d’Italia.
16 novembre 1922 Mussolini illustrò alla Camera il programma del governo, il discorso del bivacco. «Con trecentomila giovani armati di tutto punto, decisi a tutto e quasi misticamente pronti ad un mio ordine, io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e tentato di infangare il Fascismo. Potevo fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli. Potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto». Turati accusò Mussolini di «aver parlato con il frustino in mano, come nel circo un domatore di belve». Il volume di Matteotti Un anno di dominazione fascista fu esplosivo. «Il Governo fascista giustifica la conquista armata del potere politico, l’uso della violenza e il rischio di una nuova guerra civile con la necessità urgente di ripristinare l’autorità della legge e dello Stato, e di restaurare l’economia e la finanza dall’estrema ruina».
Il libro non si limitava a una mera cronaca della nuova Italia fascista, ma era un’analisi approfondita sulle modalità di consolidamento di un regime autoritario. L’obiettivo era smontare la propaganda fascista, offrendo una contro-narrazione antifascista. Il volume di Matteotti divenne uno strumento cruciale nella campagna elettorale del PSU. Nonostante i divieti imposti dal regime, Matteotti riprese a coltivare relazioni internazionali, un’attività vista con sospetto dal regime fascista. Durante il Congresso del Partito socialista del Belgio il 23 aprile 1924, Matteotti esortò i delegati a difendere «la vostra libertà. La libertà è come il pane, l’aria e l’acqua. La si apprezza pienamente solo il giorno in cui la si è perduta. Difendetela, parlando poco, agendo». I risultati elettorali rafforzarono in Matteotti la convinzione dell’urgente necessità di impegnarsi per una rapida riunificazione con il Psi massimalista. Non fece in tempo a concretizzare l’unità socialista.
La notizia della scomparsa di Matteotti divenne di dominio pubblico verso mezzogiorno di giovedì 12 giugno. Il cadavere, in uno stato di avanzata decomposizione, venne scoperto sabato 16 agosto e sepolto il 21. Il 3 gennaio 1925 Mussolini si assunse «la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. […] Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere». Fornaro ricorda che Matteotti, per la sua intransigenza morale, rappresentava un ostacolo per i comportamenti corruttivi a vari livelli, come evidenziato dalla vicenda della Sinclair Oil. Tuttavia, il 26 giugno 1924, il Senato riconfermò a larghissima maggioranza il sostegno al governo. Gli unici senatori che si opposero alle tesi mussoliniane furono Luigi Albertini, Mario Abbiate e Carlo Sforza. Quest’ultimo, con straordinario coraggio, concluse il suo intervento a Palazzo Madama. affermando che «Matteotti, signori, vince morendo».
