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Nero di seppia in Europa

di Edoardo Crisafulli –

Madre Natura, nella sua infinita saggezza, ha dotato seppie, polpi e calamari di un mezzo formidabile per intorbidire le acque quando un predatore s’aggira nei loro paraggi: una sorta di inchiostro organico. Inizio così la mia risposta all’articolo di Maurizio Fantoni Minella, “Nero d’Europa”, Blog Fondazione Nenni. Nel caso in questione, la guerra scatenata da Putin – senza alcuna giustificazione – nel 2022, c’è un capovolgimento dei ruoli: è il predatore che tenta di confonderci le idee nell’orrenda guerra ibrida in corso, pianificata a tavolino. Per ibrida intendo condotta a suon di bombe, missili, attacchi cyber e informatici e fake news (= bufale, menzogne e manipolazioni storiche) propalate sui social media a tutto spiano e con crescente intensità. All’obiezione per cui anche nell’Occidente democratico circola propaganda autoctona, farina avariata del nostro sacco, si risponde facilmente: chiunque può criticare le narrazioni e supposte menzogne mainstream o governative senza finire dietro le sbarre o al camposanto.

La sinistra non è monolitica.

Il dissenso fra le varie correnti della sinistra è naturale e anche benefico, purché si sia d’accordo su un punto dirimente: il valore assoluto della civiltà liberal-democratica. Intendiamoci subito, allora: la frattura storica non è fra riformisti e militanti della sinistra radicale, detta anche estrema sinistra. La frattura insanabile, oggi come un tempo, è fra i difensori della civiltà liberal-democratica e i suoi critici implacabili – amici di fatto, questi ultimi, di coloro che agognano regimi illiberali/autocratici alla cui sommità troneggi l’Uomo forte, del destino. Ringrazio Fantoni Minella: i dibattiti fra persone che manifestano idee contrastanti sono la linfa vitale delle società aperte, pluraliste. Il suo articolo è da manuale: esemplifica, in nuce, la differenza sostanziale, a livello di DNA, fra le due anime più importanti della sinistra: la prima s’inserisce con orgoglio nell’alveo dell’Occidente libertario, la seconda è ossessivamente critica – in maniera paranoica e irrazionale – verso la nostra civiltà, la cui espressione politica, oggi, è l’Unione Europea; talmente iper critica, quest’ultima sinistra, che prende un abbaglio colossale: sminuisce la radicale alterità delle democrazie rispetto alle dittature confluendo in tal modo sulle posizioni dell’estrema destra. Effetto nero di seppia…  Qualunque difetto o imperfezione osservabile nelle democrazie – ovvio che ve siano! – è letto dagli iper critici come un segno incontrovertibile che conferma il loro assunto dogmatico: il male s’annida e serpeggia ovunque, in tutte le società, nella stessa, identica misura e mistura. Detto banalmente: tutto è relativo. Iper critici, costoro, lo sono a senso unico: le dittature non eccitano la loro fantasia quanto l’Occidente, che denunciano come malsano e marcio.

Unità europea?

Di certo l’Europa non è una mera espressione geografica. È senz’altro vero che, osservando a debita distanza, lampeggia un’unità culturale nel continente euroasiatico, le nostre vicende nazionali affondano le radici in un sostrato comune antichissimo. Non mi soffermerò sull’eredità cristiana in Russia, o quel poco che ne è rimasta dopo settant’anni di bolscevismo. Dico piuttosto che nessuna ricognizione critica del romanzo europeo – e fors’anche nessuna storia della filosofia europea novecentesca – può ignorare la figura geniale di Dostoevskij. Ha ragione, ma solo in parte, Fantoni Minella nel dire che da “tale fil rouge (= quello culturale) si dovrebbe partire per gettare solide basi per una pace duratura fra le due parti in conflitto”, Ucraina e Russia. Nessun intellettuale, parimenti, può dimenticare che il grande romanziere russo fu internato a metà Ottocento in un gulag zarista – un luogo infernale che ispirerà i bolscevichi; Solzhenitsyn a metà Novecento narrerà con straordinaria forza espressiva la tremenda quotidianità nei campi di prigionia sovietici. Quella barbarie Dostoevskij la subiva mentre i suoi omologhi francesi, britannici e italiani godevano di una certa libertà di pensiero. Non c’erano gulag o lager in Gran Bretagna, che pure all’epoca era una democrazia liberale molto imperfetta e colonialista. E dopo il 1946 la libertà degli intellettuali europei diviene totale. Morale della storiella: è insensato sradicare la cultura politica, collante di ogni nazione, dalla letteratura, dalla filosofia, dall’arte ecc.

Certamente vi sono state fratture politico-filosofiche interne all’Europa: Montesquieu teorizzava la separazione dei poteri, perno delle società liberal-democratiche, mentre Marx disprezzava la cultura ‘borghese’ delle libertà formali. Queste ultime, in effetti, coesistevano impunemente con il capitalismo sfruttatore. Ma la soluzione non era nell’abolirle, bensì nel rendere concrete, sostanziali, per tutti i cittadini. Infatti l’ideologia politico-filosofica della borghesia in ascesa venne pienamente accettata dalla social-democrazia europea che, nel Novecento postbellico, l’ha integrata con il Welfare State e i diritti economico-sociali della tradizione socialista. Il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo ora può campeggiare con orgoglio nelle sedi dei partiti di sinistra. Nella propaggine eurasiatica Lenin si batteva, sì, per il proletariato russo, ma teorizzava al tempo stesso la necessità di sopprimere le libertà in nome del Moloch comunista. E nella prassi fu coerente: la Rivoluzione, ripeteva con sussiego, non è un pranzo di gala. Nel nostro Pantheon, insomma, non possono entrare né Hitler, né Mussolini, né Lenin, né Stalin. Sono benvenuti, invece, Kant, Montesquieu, Cesare Beccaria. E pure Gramsci, il teorico dell’egemonia non violenta, vi merita un posto d’onore. Se vogliamo un’Europa unita, dal Portogallo agli Urali (io la desidero fortemente!), non è sufficiente commuoversi dinnanzi alla dolcezza del Lago dei cigni di Tchajkovskij: bisogna che i russi accolgano Lo spirito delle leggi di Montesquieu e gli illuministi europei nel loro Pantheon ideale e scaccino a pedate Stalin – il dittatore e sciovinista grande-russo che è nelle grazie di Putin e dell’establishment che lo attornia. È quello lì il fil rouge che congiungerà armonicamente l’Europa all’Eurasia.

Disunità politica del Continente euroasiatico.

Il classico saggio Storia dell’idea d’Europa di Federico Chabod ci aiuta a comprendere la logica della guerra in corso in Ucraina: c’è una linea di rottura netta, nella sfera politica, fra due realtà confinanti geograficamente ma distanti anni luce dal punto di vista ideale. Da un lato l’Europa che ha conosciuto il diritto di Magdeburgo, le autonomie cittadine, la lotta perenne fra poteri o movimenti distinti (Impero contro i liberi comuni, Papato contro Impero, protestanti contro cattolici, illuministi/laici/liberali/socialisti contro clericali oscurantisti ecc.), nonché le battaglie dei partiti liberali, democratici, cristiano-sociali e social-democratici – quel guazzabuglio di particolarismi è sfociato, dopo secoli di turbolenze, nell’odierna civiltà di cui l’Unione Europea è mirabile espressione. Dall’altro lato della barricata giganteggia l’Eurasia, che era ed è tuttora nelle grinfie del dispotismo. La Russia sin dal Medioevo pencola da questa parte buia e arretrata. L’Ucraina – nei suoi confini internazionalmente riconosciuti — appartiene invece alla storia politica europea. È dunque sbagliato – sul piano scientifico prima ancora che su quello politico – asserire che “l’Europa cristiana vuole escludere, sia pure per ragioni strategiche, la Russia da quell’idea di Europa che univa certamente attraverso le arti, la musica e la letteratura il grande impero russo con gli imperi centrali ad Occidente”. È la Russia di Putin che, trinceratasi in un’antica tradizione autoritaria autoctona, si autoesclude dalla comunità delle nazioni libere e democratiche. Quanti momenti di libertà, pur circoscritta, ha conosciuto la Russia negli ultimi secoli? Suvvia, non sarà mica colpa dell’Europa occidentale se in Russia c’è stata una delle autocrazie più feroci al mondo, il servaggio della gleba fin quasi al Novecento, lo stragismo bolscevico, il regime stalinista con i suoi gulag, i pogrom anti ebraici e le repressioni su vasta scala.

Antiamericanismo preconcetto e miope.

Per quale ragione escludere l’America dall’idea di radici culturali condivise? Ovvio che gli USA sono altra cosa dall’Unione europea. Ma il legame di solidarietà atlantica è saldo proprio perché si nutre di un humus politico comune. Quando Churchill – fino al 1941 solitario combattente contro il nazismo vittorioso nell’Europa continentale – incontrò Roosevelt su una nave nell’Atlantico, pregarono entrambi nella lingua di Shakespeare leggendo dal Book of Common Prayer della tradizione protestante anglicana. Lì nacque la Carta atlantica che mirava a fondare l’ordine mondiale postbellico su principi democratici e progressivi – in gran parte diametralmente opposti ai principi in cui credevano i leader russi di allora e quelli di oggi: diritto all’autodeterminazione dei popoli, rifiuto delle acquisizioni territoriali ottenute con la forza, elogio della democrazia liberale, perseguimento della pace universale intesa anche come libertà dal bisogno. Non sempre gli occidentali sono stati coerenti: ma ci hanno provato, e ci provano ancora, a edificare società migliori, più inclusive. Di questo si può esser certi: il mondo che hanno costruito, pur imperfetto, è infinitamente migliore delle tirannie. È assurdo dire che la pace e la concordia, in Europa, arriveranno “solo a patto di trovare l’emancipazione, la giusta distanza dal predominio della potenza nordamericana, del tutto estranea alla storia e alla cultura d’Europa”. L’America condivide con l’Europa una storia culturale e religiosa al pari della Russia, ma, in aggiunta, ha assorbito ab initio, fin dai suoi primi vagiti, lo straordinario lascito illuministico: si legga la dichiarazione d’indipendenza americana: un inno alla libertà e ai diritti inalienabili dell’individuo inteso come cittadino, cui nessuno può precludere la ricerca della felicità come avviene nei totalitarismi, dove i dittatori la ‘felicità’ te la impongono con i manganelli e il filo spinato. Quella dichiarazione è un frutto stupendo della civiltà europea trapiantata nel continente nordamericano. Conosco la contro argomentazione: Washington era uno schiavista e fino alla rivoluzione democratica dei Kennedy negli Stati del Sud c’era la Segregazione razziale. Sì, verissimo – purtroppo. Schiavisti e incoerenti erano pure gli antichi ateniesi. Eppure ci hanno regalato un dono di valore inestimabile: il concetto assoluto, universale di democrazia.

Il punto essenziale è proprio questo: dobbiamo guardare anche ai progressi raggiunti, perché le democrazie saranno imperfette, ma contengono un DNA sanissimo, che le rende perfettibili. E infatti solo chi ha il paraocchi non vede il processo tormentato eppure costante di progresso in tutti i campi del vivere civile, grazie alle lotte dei movimenti democratici e di ispirazione socialista. La democrazia italiana non è forse progredita? Per limitarci a un esempio: fino al 1960 vigeva in Italia una norma, bocciata come illegittima dalla Corte costituzionale, per cui le donne erano escluse dalla carriera diplomatica, prefettizia e in magistratura.  E nel nuovo millennio l’America un tempo segregazionista ha eletto il primo Presidente afroamericano! Non è forse vero che in America (e nella criticatissima Israele) i diritti LGBT, delle donne e delle minoranze sono tutelati? In cosa è perfettibile una tirannia, se non nella sua capacità di reprimere e uccidere sempre meglio, ovvero più crudelmente?  In conclusione: se intendiamo la cultura anche nella dimensione politica, l’odierna Unione Europea è vicinissima agli USA e sideralmente distante dalla Russia dispotica. Ne consegue che è più logico, nonché conforme alla verità storica, affermare l’esatto contrario di quanto dice Fantoni Minnella: ovvero che pace e concordia arriveranno quando anche i russi si abbevereranno alle fonti europee più cristalline: illuminismo, social-democrazia, Stato costituzionale di diritto.

Opinioni e verità.

Ci sono le legittime opinioni, e ci sono altresì i fatti storici, nonché i documenti che ci aiutano a ricostruirli. Agli intellettuali spetta il dovere di fare i conti con la realtà, senza nascondere nulla.  Chiamasi, questa, onestà intellettuale. Il 27 giugno 2019 Putin, in una celebre intervista al Financial Time, dichiara tranquillamente, senza mezzi termini, che il liberalismo è fuori tempo, ha esaurito la sua spinta propulsiva (se mai l’ha avuta!), e confligge con gli interessi delle popolazioni europee. Un esempio della nostra decadenza? Eccolo: noi debosciati europei, noi amici di gay e lesbiche, noi nemici della famiglia tradizionale, tolleriamo l’intollerabile rendendo le nostre città invivibili: “i migranti possono uccidere, rapinare e violentare con impunità perché (nell’ottica liberale) i loro diritti in quanto migranti vanno protetti.” Ma, aggiunge l’idolo delle destre populiste, “ogni crimine va punito. L’idea liberale è divenuta obsoleta”.  Ordine e disciplina! Basta con la cultura liberale-libertina che produce solo anarchia e caos e ingiustizia! Dice bene Christian Rocca, (“Putin, e la dissociazione cognitiva dell’Occidente”, Linkiesta): quell’intervista è un manifesto ideologico reazionario. Putin è più onesto degli intellettuali che glissano sulle sue folli dichiarazioni. Chiarissimi gli obiettivi della Russia neo-imperiale: “la rivincita dell’umiliazione subita a causa del dissolvimento dell’Unione Europea, il riscatto del tradizionalismo oscurantista rispetto ai danni del multiculturalismo globale e l’ascesa del nazionalismo populista” (ibid). In sintesi: la Russia autocratica è dotata di una spina dorsale d’acciaio, in quanto è maschia etero, cristiana e nazionalista: ne consegue un no secco ai diritti politici e civili, un no secco alla cultura LGBT, un no secco alla diversità culturale e al dialogo fra le nazioni. Un sì squillante, invece, all’autoritarismo su tutta la linea. Ancora convinti che sia l’Europa a voler escludere la Russia attuale dalla propria comunità di destino?

Macchie sulla coscienza.

Europei (soprattutto tedeschi) e russi, in effetti, una cosa orripilante la condividono: hanno generato i due più efferati genocidi del Novecento, la Shoah antiebraica (6 milioni di vittime) e il Holodomor anti-ucraino (4-5 milioni di morti). I russi, poi, hanno una primogenitura (im)morale: hanno organizzato per primi il sistema dei campi di concentramento, di rieducazione, di tortura e di sterminio.  I nazisti sono stati ottimi scolari. Gulag e lager: due parole che evocano terrore. Eh già, Russia e Germania hanno queste terribili invenzioni in comune. Difficile stimare le vittime degli eccidi di oppositori che vanno ad aggiungersi a quelle dei genocidi menzionati. Si ipotizza che nella Russia stalinista vi sia stato almeno 1 milione di morti nelle brutali repressioni degli anni Trenta. Nella Germania hitleriana i dissidenti e oppositori macellati furono di meno, ma se computiamo gli assassinati per motivi politici nei Paesi occupati dai nazisti (Polonia, Ucraina, ecc.) si può parlare di almeno 3 milioni di morti ammazzati dalle SS e dalle Einsatzgruppen per motivi politici e non ‘razziali’ – i commissari politici dell’Armata Rossa venivano fucilati appena catturati. La storia dell’Europa non è scevra da macchie e orrori. Gli europei, tuttavia, sono riusciti a sconfiggere, quasi sempre con le proprie forze, i mali oscuri endogeni: integralismo religioso e teocrazie, assolutismo politico, colonialismo, dittature nazifasciste. Ce l’abbiamo fatta, ripeto, quasi sempre da soli a uscire dal tunnel in cui ci eravamo infilati spontaneamente. In un caso cruciale qualcuno ci ha dato una bella mano: il nazifascismo è stato sconfitto grazie al massiccio supporto degli USA, che, detto per inciso, non hanno mai né concepito né architettato un genocidio.

Senonché dal 1946 in Germania c’è piena libertà.  Si paragoni con la situazione in Russia. La Germania – direi: l’Europa intera – si è affrancata finalmente dai demoni del suo passato. Incluso il colonialismo. La Russia no: ieri era schiava dell’autocrazia zarista e poi del bolscevismo, oggi della tirannide di Putin, il quale ha velleità annessionistiche e di potenza.  È anche questa colpa nostra, degli occidentali e degli europei? Attendo con trepidazione il raggiungimento della piena maturità. La grande svolta avverrà solo quando le classi dirigenti di tutte le nazioni ammetteranno le loro responsabilità e quelle di chi li ha preceduti, anziché scaricarle in maniera infantile sugli altri. Noi occidentali siamo maestri nell’arte dell’autocritica, ci fustighiamo per gli errori commessi dai nostri nonni, bisnonni e avi. I russi (non tutti, ma in gran parte) e gli altri popoli soggetti a tirannie, l’auto-critica non sanno proprio cosa sia: sono ben contenti che l’intellighenzia progressista occidentale si auto-attribuisca la totalità delle colpe del pianeta. Ormai i nostri mea culpa collettivi assomigliano alle preghiere ritmate dei buddisti: ci fanno sentire meglio. La verità però è evidente: la Russia si è fatta travolgere dalle sue stesse forze demoniache, che sono endogene, autoctone. Basta documentarsi, e studiarsi le dichiarazioni ideologiche di figure importanti dell’establishment russo per capire la l’estensione e gravità del problema: la fede radicatissima nell’ideologia illiberale e tradizionalista, che diffonde una visione innervata da tratti paranoici e fascistoidi. Il dramma che ne scaturisce, questo sì, è europeo! Giacché le scorie tossiche delle ideologie illiberali investono anche noi. Parlare di espansionismo della NATO di fronte a questo problema macroscopico equivale a cercare una pagliuzza nell’occhio altrui quando infuria una guerra di civiltà accompagnata dal boato di missili e bombe.

La (presunta) barbarie dell’Occidente ipocrita.

Gli ucraini sarebbero vittime di una barbarie “ancora più sottile e ipocrita” di quella putiniana, e cioè dell’imperialismo mascherato “dell’Occidente nordamericano che, per tramite dell’Europa, pianifica la propria avanzata ed egemonia territoriale”. Poiché per egemonia s’intende, qui, l’affermarsi a livello planetario della civiltà liberal-democratica, non posso che compiacermi dei successi dell’Occidente. L’egemonia degli Yankees sarebbe gradita anche alle centinaia di migliaia di cittadini russi fuggiti dal loro Paese a partire dal febbraio del 2022.  Nel medesimo periodo masse di disperati hanno cercato il riscatto dalla povertà e un futuro di speranze fresche negli USA, la nazione del Grande Satana, evidentemente ignari delle lezioni degli intellettuali radical-chic, i quali li ammoniscono senza essere ascoltati sull’inferno che ivi troveranno.

E ignari della barbarie americana rimarranno, quei migranti disperati: mai si è assistito a un esodo di profughi e dissidenti dagli USA verso il resto del mondo. Qui, nuovamente, riemergono due viziacci della tradizione marx-leninista:

  1.  l’intellettuale di sinistra si autoproclama detentore della verità, la gnosi rivoluzionaria; se le persone comuni non la comprendono, la verità intima delle cose, allora vuol dire che sono poveri idioti succubi della propaganda neoliberale. Si pensi a Michel Foucault, una delle menti più geniali del Novecento, lui libertario e omosessuale: provava un moto di simpatia per i rivoluzionari islamisti che in Iran stavano abbattendo un regime corrotto per sostituirlo con uno infinitamente peggiore. Nel 1981, mentre gli intellettuali della gauche marxista discettavano nei loro salotti sulle magnifiche sorti e progressive del governo instaurato da Khomeini, le guardie rivoluzionarie iraniane mettevano in pratica il piano ben congegnato di liquidazione di ogni futuro dissenso, seguendo l’esempio leninista/stalinista rivisitato in salsa islamica. In quell’anno fu decapitata l’intera classe dirigente laica o moderata: massacrati a migliaia socialisti, comunisti, social-democratici, sindacalisti, liberali e islamisti democratici. Sotto la mannaia finirono proprio coloro che avevano lottato per abbattere il regime dello Shah di Persia.  Colpa del Marx europeo, o non piuttosto del pessimo esempio rappresentato dal dispotismo asiatico marxisteggiante di Lenin e Stalin?
  2.  la forma di governo liberal-democratica è mera sovrastruttura, finché regna il capitalismo inutile parlare di giustizia e libertà. Che differenza ci sarà mai fra una dittatura e una democrazia? Ricordo agli smemorati la massima di un Presidente della Repubblica socialista ed ex partigiano, che il fascismo l’aveva affrontato a viso aperto: “Alla più perfetta delle dittature preferirò sempre la più imperfetta delle democrazie” (Sandro Pertini, 1979). Nessun socialista che si rispetti accetta lo status quo capitalistico. Sappiamo bene che vi sono, nelle nostre società, germi maligni: certe lobby legate alle industrie belliche, che soffiano sul fuoco dei conflitti per trarne profitto; la speculazione finanziaria che getta sul lastrico milioni di persone; la distruzione degli ecosistemi in nome del profitto fine a sé stesso; lo sfruttamento della manodopera nei Paesi in via di sviluppo; gli accordi delle multinazionali con regimi dittatoriali ecc. Sia chiaro, però: la tradizione socialista democratica ci ha trasmesso una lezione vitale: la democrazia è l’unico terreno sul quale possiamo e dobbiamo combattere, non v’è altro modo per estirpare quei germi; la democrazia, diceva Filippo Turati, è la via maestra per riformare le nostre società e avvicinarle all’ideale socialista della pace universale. Così la pensava anche Nenni. Il ricorso alle armi è legittimo solo viene instaurata una dittatura (lotta partigiana antifascista) oppure se si viene invasi da una potenza straniera (lotta dei polacchi e  dei russi nel 1939-45, lotta degli ucraini oggi per l’indipendenza e l’integrità nazionale).

Libero arbitrio e politica.

Un insegnamento essenziale dell’Europa cristiana è la centralità del libero arbitrio: ogni essere umano è libero, e quindi responsabile delle sue azioni. La vulgata marxista ha legittimato una visione deterministica, come se gli esseri umani fossero in balia di forze soverchianti. Attenzione, però: Marx, un genio, ribadisce un concetto veritiero: gli uomini fanno le circostanze non meno di quanto le circostanze facciano gli uomini. L’esistenza di ideologie criminogene – che non spuntano per abiogenesi, ma sono teorizzate da esseri umani senzienti – ne è la dimostrazione più lampante. È quindi sbagliato dire che un’America a noi culturalmente estranea è “interessata solamente a scatenare una guerra al fine di fare della Russia un avamposto dell’Occidente in funzione anti-cinese”. Da che mondo è mondo, le guerre le scatenano gli individui, non le circostanze materiali o politiche. Certe guerre i leader di turno le scatenano perché ispirati a ideologie nocive, il nazionalismo per esempio. La guerra in Ucraina, il 24 febbraio del 2022, l’ha scatenata Putin, e ne porta per intero le responsabilità. Qui, di nuovo, occorre un richiamo ai documenti: si legga l’articolo “Sull’unità storica di russi e ucraini”, uscito nel luglio del 2021, nel quale Putin, arrampicandosi su per gli specchi, cancella con un tratto di penna la storia e l’identità ucraine. Putin dichiara apertamente le sue velleità imperialistiche o neocolonialiste: in quell’articolo nega legittimità all’esistenza stessa dell‘Ucraina quale nazione indipendente, in totale sfregio alla realtà storica e al diritto internazionale. Neppure questo manifesto ideologico della guerra in corso apre gli occhi sulle intenzioni bellicose e annessionistiche di Putin?  Ricordiamo agli smemorati in preda all’antiamericanismo che il Memorandum di Budapest, sottoscritto da Russia e Ucraina nel 1991, obbligava la Russia, in cambio della cessione delle testate nucleari, a riconoscere l’intangibilità dei confini dell’Ucraina.

Non si insisterà mai abbastanza sul concetto di libero arbitrio: il fatto che gli Usa, come altre nazioni democratiche, agiscano in base a calcoli geostrategici, talora cinicamente, e sfruttino le situazioni sul terreno a loro vantaggio avendo ben chiari i loro interessi (che, però, sulle questioni essenziali coincidono con i nostri), non muta di un ette la verità: siamo dotati di una facoltà morale, diversamente dal cane di Pavlov. Seguendo la logica aberrante secondo cui gli USA sarebbero corresponsabili della guerra in Ucraina, potremmo affermare che Stalin condivide le stesse, identiche responsabilità di Hitler, giacché nel 1939 sottoscrisse con lui il Patto di non aggressione e si spartì la Polonia.  Ma non lo dirò, perché sarebbe, questo, un falso storico: pur condannando lo stalinismo e quel Patto infame, so bene che fu Hitler a voler una guerra di annientamento per il Lebensraum, guerra che pianificò già nel 1933. Documenti e testimonianze al Processo di Norimberga lo provano in maniera inconfutabile (ad esempio le ammissioni di Herman Göring sulla finalità del piano quinquennale di cui era responsabile). Stalin ha le sue colpe gravissime, non attribuiamogliene una in più. E so altresì che l’America, la quale si sentiva compartecipe della cultura e dei destini dell’Europa, sostenne la Gran Bretagna isolata nel 1939 e aiutò pure la Russia invasa dai nazisti nel 1941. Se gli USA non fossero intervenuti, sia militarmente sia con il massiccio programma di aiuti materiali/militari, Hitler avrebbe vinto. Oggi, in base alla medesima logica ‘interventista’, l’America sostiene l’ucraina invasa dai russi. E questo sarebbe imperialismo o velleità egemonica?

Politica, post-verità e fake news.

Nelle democrazie liberali la scienza e la cultura sono libere, e libero ne è l’insegnamento. Nelle tirannie c’è una sola verità quella di Stato, imposta dall’alto. Credo che l’intellettuale critico, nelle nostre società, debba ribellarsi alla pseudo-cultura della post-verità, letame che i regimi ci scaraventato addosso nella speranza che la gramigna illiberale attecchisca e fiorisca anche da noi. Suggerisco molta cautela nell’uso di una categoria storico-filosofica quale genocidio. Altrimenti alimentiamo il peggior revisionismo storico: se tutto è genocidio, nulla lo è. Umberto Eco e Carlo Ginzburg ci hanno insegnato qual è l’unica arma efficace contro la post-verità e le fake news, dette comunemente bufale, le quali alimentano il populismo illiberale: il rigore metodologico, la ricerca scientifica, la falsificazione di ogni teoria sulla base di prove empiriche/verifiche storiche. La post-verità, infatti, se ne frega dei criteri scientifici: ritiene che vi siano solo narrazioni. Quindi chi vince sul piano della retorica o della propaganda… ha ragione! Sappiamo tutti cos’è il nazismo, sicché parlare di denazificazione dell’Ucraina, per esempio, è semplicemente folle e menzognero. Analogamente disponiamo di una definizione rigorosa del concetto di genocidio – si legga la voce della Treccani e quella dell’Enciclopedia dell’Olocausto, entrambe online. Perché ignorarla? Per quanto ci addolori ciò che sta avvenendo in Medioriente, a Gaza non è in atto nessun genocidio. Dire altrimenti, oltre che violare la verità e il buon senso, significa legittimare la destra revisionista che ridimensiona la portata delle camere a gas. Perché se ogni opinione è lecita, se ogni categoria è autoreferenziale, se svaniscono gli appigli alla logica e ai fatti concreti, se ci facciamo trascinare dalla pancia e dall’emotività, allora un altro David Irving può saltar su un brutto giorno per ribadire falsità e aberrazioni del tipo: “non è vero che i nazisti hanno gassato milioni di ebrei e nemici del Reich”, oppure “anche gli americani hanno orchestrato il genocidio dei nativi americani”.

La coerenza è davvero la virtù degli imbecilli?

È sacrosanto scandalizzarsi per le “posizioni razziste, omofobe e filo-fasciste” che stanno vivendo un triste ritorno di fiamma in Europa, né va sottovalutata la tossicità delle idee “oscurantiste” del generale Vannacci, appena eletto nelle liste della Lega. A onor del vero, però, le idee di Vannacci non vengono alimentate dagli USA, bastione delle libertà civili. Il Vannacci-pensiero collima perfettamente con l’ideologia religiosa di un alleato di Putin, il Primate Kirill, il quale vede nell’Occidente e nella sua difesa dei diritti civili, in primis quelli LGBT, una minaccia gravissima, esistenziale, ai valori eterni di Santa Madre Russia. Chi, se non la Russia putiniana foraggia e sostiene il più bieco populismo europeo mediante campagne social-mediatiche all’insegna di fake news e manipolazioni storiche ben orchestrate e altrettanto ben finanziate? Le bufale le inventiamo anche noi occidentali, lo so. Negli USA e in Europa, però, si sentono più campane. In Russia una sola: la campana del regime. Chi manifesta il suo dissenso sentirà un’altra campana, lugubre: quella che suona a morto. Nella barbarie “sottile e ipocrita dell’Occidente nordamericano” il grande linguista Noam Chomsky non solo non è stato imprigionato, torturato e ucciso: non è stato neppure discriminato nei suoi 95 anni di vita. Non solo non è stato discriminato: ha fatto una brillante carriera universitaria. Non solo ha fatto una brillante carriera academica: ha potuto scrivere e parlare ovunque a ruota libera, divenendo la voce critica del suo Paese: uno degli ‘intellettuali contro l’establishment’ più rispettati e corteggiati dai media. Alexei Navalny, al contrario, è stato privato della sua libertà, torturato, rinchiuso in un gulag, dove era costretto a congelarsi alle temperature dell’inverno siberiano, e infine è stato trucidato barbaramente. È tutta qui, cari miei, la differenza sostanziale fra Occidente liberal-democratico e dispotismo asiatico.  Non siamo noi occidentali ad aver provocato l’orso russo, al quale spesso, negli ultimi decenni, abbiamo teso la mano ingenuamente. È la Russia illiberale di Putin che spruzza il nero di seppia nel nostro mare limpido al fine di giustificare un’infame guerra di aggressione. L’obiettivo strategico è inquietante: ripristinare con la forza bruta un impero retto da autocrati con le relative aree di influenze, che l’eretico Montesquieu finisca nella pattumiera della storia! Questa cultura tossica sì che ci è del tutto estranea. Dobbiamo combatterla con le unghie e con i denti.

 

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