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Chavismo e anti-chavismo in Venezuela: fine delle utopie politiche latinoamericane

di Maurizio Fantoni Minnella

a Ken Loach, compagno e movimentista

Latinoamerica come fucina di miti rivoluzionari, per un Occidente europeo che dalla fine della seconda guerra mondiale in poi ha rinunciato a qualsiasi impeto rivoluzionario, prontamente riattivato dall’illusione che con la lotta armata si potesse avviare una nuova rivoluzione. Non inedito, dal momento che gli “uomini delle Brigate Rosse” (come ebbe ad apostrofarli Paolo VI durante il sequestro di Aldo Moro, sebbene anche le donne fossero non meno protagoniste!) intendevano rifarsi politicamente e strategicamente alla lotta partigiana percepita come il modello storicamente più vicino. Una visione, questa che, come è noto, fu aspramente confutata dai compagni del partito comunista, timorosi che “la dignità, la gloria e il sacrificio dei partigiani fossero sporcati da feroci assassini…”.

In democrazia, si diceva e lo si crede anche oggi, si agisce con metodi democratici! Si trattava, forse, di comprendere meglio i meccanismi della democrazia che nel mentre difendeva i valori dell’antifascismo, al contempo copriva (nei suoi gangli più oscuri) le derive neo-fasciste e le loro pratiche terroristiche da piazza Fontana in avanti.

La storia latinoamericana degli ultimi sessant’anni è la prova vivente della costante presenza di una prassi rivoluzionaria che in alcuni casi non ha escluso aprioristicamente l’opzione democratica pur muovendo da un ideale di socialismo, come nel caso della rivoluzione sandinista in Nicaragua, (1979-1986). Coloro che avevano creduto alla lotta rivoluzionaria contro il tiranno Batista a Cuba e alla conseguente presa del potere come necessità inderogabile (1959), che a sua volta portò alla ribalta figure ormai leggendarie come Fidel Castro, Ernesto Guevara de la Serna, Camilo Cinfuegos, (i cosiddetti “barbudos”), applaudirono i dieci comandanti sandinisti, laici e cattolici insieme, testimoni di un processo di liberazione che gettò le basi per una società nuova nel piccolo e povero paese centroamericano. La progressiva perdita delle speranze di un reale cambiamento venute meno grazie a un colpo di mano proprio di colui che incarnò il sandinismo, ovvero di Daniel Ortega Saavedra, introdusse negli osservatori europei e nelle stesse diverse formazioni di sinistra il dubbio non solo sull’efficacia del modello rivoluzionario, ma anche della sua compatibilità con i nuovi modelli economici e di democrazia.  Proprio rifacendosi ad un altro mito latinoamericano, quello cileno dell’Unidad Popular di Salvador Allende (1908-1973), si arrivava a teorizzare l’ipotesi di una transizione democratica rispetto ai possibili governi autoritari o populisti.

In Venezuela, paese tradizionalmente ricco, tra i maggiori produttori di petrolio al mondo, perennemente governato dalle oligarchie economiche generatrici a loro volta di diseguaglianze economiche devastanti, la nascita del chavismo (dal leader bolivariano Hugo Chávez Frías, 1954-2013), come movimento di matrice socialista e ispirato alla figura di Simón Bolívar 1783-1830, fece ancora una volta ben sperare alle sinistre in un rinnovato fervore rivoluzionario di nuovo proveniente da questa latitudine del mondo. Chávez, sebbene nutrisse per Fidel Castro un rispetto e un’ammirazione infinite, non potè e non volle mai realizzare il sogno del partito unico bolivariano, quella democrazia socialista che ancora oggi governa Cuba, restando nei limiti di un regime democratico parlamentare. La transizione da Chávez a Nicolás Máduro (che a sua volta riservò a Chávez la stessa ammirazione incondizionata, parlando di lui come un padre!), avvenuta dopo la morte del leader ma preparata già anni prima, portò ad una progressiva degenerazione del sistema economico, causa la corruzione ai vertici del governo e la dissipazione delle risorse pubbliche derivate dal petrolio, ma anche dalla svalutazione della moneta locale, il bolivar, e finanche dalle sanzioni economiche Usa, fattori che hanno determinato un estremo impoverimento materiale del paese e come logica conseguenza l’esodo forzato di decine di migliaia di venezuelani all’estero, dalla Colombia al Cile, tanto che si parlò di catastrofe umanitaria. A ciò si dovrà correttamente aggiungere l’estrema ostilità degli Stati Uniti rispetto al socialismo vero o presunto del chavismo – che non ha certamente eliminato le disparità sociali tra la stragrande maggioranza della popolazione e le elite borghesi provenienti dei vecchi regimi cosiddetti “petroleri”. Anche le forze politiche oggi al potere costituiscono un’elite arricchitasi grazie al denaro pubblico a cui peraltro non sono estranee i vertici militari.  Molti i tentativi di rovesciare il regime di Maduro e ancor prima quella di Chávez (come nel lontano 11 aprile 2002 quando al golpe corrispose un contro-golpe che ripotò Chávez al potere), con l’utilizzo di figure-fantoccio come quella del giovane Juan Gaidó, in nome di un ultra-liberismo di cui già abbiamo visto esercitare il proprio dominio, ad esempio, nell’America di Reagan oppure nel Chile di Pinochet. E’ proprio qui che entra in gioco la doppia lettura che le sinistre (penso soprattutto a quelle italiane) esprimono nei confronti del chavismo 2.0. Un’opzione che va comunque difesa nonostante limiti, errori e crimini del tutto intenzionali. Non per difendere un socialismo che non c’è (di questo vi è a sinistra un barlume di consapevolezza) ma sostanzialmente per sottrarre il grande paese latinoamericano alle grinfie del “dio terribile norteamericano” e dei suoi referenti venezuelani: uomini e donne, questa volta con i nomi di Edmundo González Urrutia (il più votato dell’opposizione) e di María Corina Machado (ossia la figura più in vista e popolare), ultime incarnazioni del “grido di libertà” pronunciato dal libero mercato delle multinazionali. Ora, quale che sia la verità vera sull’esito delle elezioni politiche presidenziali appena svoltesi (28 luglio 2024), (ciascun candidato fornisce dati che lo vedrebbero vincitore con il 51 o con il 70 per cento delle preferenze!), è importante capire la visione della sinistra rispetto a tale verità: si difende, cinicamente e comunque Maduro e il suo partito socialista unito prescindendo dalla validità dei risultati presentati in quanto rappresentante di una sinistra latinoamericana che governa il paese da più di vent’anni oppure nel dare ancora credito al nuovo chavismo, si vuole credere alla buona fede dei suoi esponenti, ovvero alla giustezza dei risultati elettorali? Tra il cinismo, appunto, e l’ingenuità, allora, si perpetua la difesa di simboli e di miti più che di realtà concrete, una delle quali sarebbe, auspicabilmente, espressa nella seguente frase, che fa volutamente il verso ad un’altra più antica: “Né con Maduro né con il binomio Urrutia-Machado” per un nuovo socialismo latinoamericano come direbbero all’unisono, dal sud e dal nord delle Americhe, Pepe Mujica e Noam Chomsky.

Con l’avvento della globalizzazione e la definitiva supremazia della finanza sulla politica e delle oligarchie del nuovo capitale globale sulle economie locali, e finanche del nuovo potere mediatico dell’informazione digitale, la democrazia si impone sempre di più non come reale volontà espressa dalle classi popolari, ma come uno strumento flessibile di potere nelle mani di maggioranze populiste democraticamente elette, come è avvenuto nel Brasile di Jair Bolsonaro alcuni anni fa e nell’Argentina di Javier Milei oggi. Autocrati democraticamente eletti da un popolo che ha smarrito ogni idea di giustizia sociale nel nome del più bieco egoismo individualista e di un altrettanto bieco patriottismo. Il ritorno al potere di Luiz Inácio Lula da Silva dopo un’ingiusta accusa di corruzione e una lunga detenzione in carcere, testimonia di una democrazia ancora presente ma fragile, pronta in ogni momento elettorale ad essere sovvertita da forze politiche che utilizzano strumenti economici, metodi intimidatori, campagne mediatiche con l’appoggio statunitense al fine di riconquistare il potere temporaneamente perduto. Come perduto è l’orizzonte politico latinoamericano dove l’epica e la leggenda, ma anche il coraggio dell’utopia, fatta eccezione per il popolo zapatista che ha scelto la via  della vera democrazia partecipativa, del comunitarismo e della stessa utopia che diventa pratica quotidiana, sono ormai sparite dall’orizzonte non solo politico ma anche culturale di un’Europa neoliberista, prigioniera dei mercati sovrani e sovranazionali e dell’individualismo di massa, per un verso, e del sovranismo populista per l’altro, ormai priva di una propria identità sostenibile.

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