di Maurizio Fantoni Minnella –
Esistono intere biblioteche contenenti volumi scritti da viaggiatori di tutte le epoche, tra queste la “Biblioteca Museo dei viaggi e della letteratura di viaggio” dell’associazione culturale Freezone (1), ma ben poco si parla e si scrive dei non-viaggiatori, categoria umana e sociale alquanto trasversale giacchè in essa assumono un ruolo preponderante fattori psicologici individuali, scelte personali che possono non dipendere necessariamente da semplici questioni di cultura o di censo.
Va detto, innanzitutto, che fin dai primordi di tale letteratura, e in special modo nel periodo storico delle grandi scoperte geografiche e ancor prima, all’epoca di Marco Polo (1254-1324) e dei suoi precursori arabi come Ibn Battuta (1304-1369) e genovesi (i fratelli Ugolino e Vidino Vivaldi, navigatori nel XIII° secolo), i resoconti di viaggio che contenevano, al di là dei luoghi e dei fatti descritti, una serie di esagerazioni attribuibili alle forti emozioni suggerite dalla natura estrema ed esotica dei luoghi visti e attraversati, (durante le navigazioni negli oceani, s’inventavano mostri marini mentre le grandi foreste pluviali, creature deformi o fantastiche come le mitiche Amazzoni). Essi venivano scritti esclusivamente per coloro che se ne stavano a casa, che mai avrebbero potuto visitare simili luoghi e mondi lontanissimi. Questo significa che è sempre esistita un’intima connessione tra il viaggiatore e la sua opera scritta, fucina e giacimento prezioso di notizie e di descrizioni di luoghi e di figure di un’alterità irraggiungibile per le moltitudini, e il lettore che nell’atto stesso di leggerne le sorprendenti imprese, arricchiva così la propria immaginazione. Molti secoli dopo lo stesso accadeva con i lettori “in pantofole” delle mirabolanti imprese dei personaggi di Emilio Salgari (1868-1911), prolifico e assai popolare scrittore di romanzi esotici, quasi tutti di ambientazione esotica o comunque extraeuropea. Non si trattava, ovviamente, di letteratura di viaggio ma di un sottogenere come l’avventura, fratello minore e negletto della grande letteratura romanzesca del diciannovesimo secolo.
Quando fiorì in Europa la letteratura di viaggio come genere specifico, ad opera perlopiù di intellettuali e scrittori, tra il 1600 e il 1800, ancora pochi erano coloro che viaggiavano e che potevano permettersi lunghe permanenze all’estero (come leggiamo nel romanzo di Andrè Gide (1869-1951) L’immoralista, 1902, dove il ricco protagonista, riflesso evidente dell’io narrante, viaggia a lungo dalla Francia al Maghreb algerino fino all’oasi di Biskra). Si trattava, infatti, di un privilegio riservato alle classi superiori, all’alta borghesia e all’aristocrazia e ai suoi rampolli, avidi di conoscenza a completamento della propria educazione (il Gran Tour). Ancora una volta è il lettore che, potendo disporre dei loro testi, avrà l’opportunità di conoscere, ad esempio, le rovine della Magna Grecia senza avervi messo piede. Una funzione didattica che in età moderna vennero ad assumere le grandi enciclopedia geografiche e le opere fotografiche dedicate ai diversi paesi. Quanti bambini e ragazzi hanno fantasticato su luoghi lontani appena scorti su di un punto nero in un mappamondo illuminato o in un atlante scolastico?! L’esercizio della fantasia veniva, dunque, a sostituire quello dello spostamento, del viaggio come raggiungimento di una meta. Secondo il filosofo Umberto Galimberti, esiste una netta separazione tra il viandante e il viaggiatore (2) come tra colui che non ha una meta perché essa è il viaggio stesso nei suoi recessi più reconditi e colui, invece che viaggia per uno scopo. La stessa differenza, molto contemporanea, tra un viaggiatore e un turista. Il discorso si fa più ambiguo quando si parla di complicità tra il viaggiatore e il suo lettore. Quest’ultimo, leggendo, interpreta e a suo modo, riscrive mentalmente la mappa dei luoghi descritti sulla pagina, arricchendo la propria conoscenza. Questo non significa affatto voler rinunciare a priori ad affrontare in prima persona l’esperienza del viaggio. Per molti, ancora oggi, è sufficiente l’utilizzo di Google Map per soddisfare la propria curiosità e il proprio bisogno di spaziare, almeno con la mente e con lo sguardo, in territori mai visti. Oppure, peggiorativamente, di vedere o spiare in anticipo ciò che si incontrerà più avanti durante il viaggio reale. Non diciamo sconosciuti perché ormai non ne esistono più, almeno sulla terra. Tutta è stata sufficientemente esplorata, semmai è sotto di essa che è ancora possibile fare scoperte interessanti di antiche chiese o di città scomparse.
Ancora durante i primi trent’anni del ‘900, in Italia rispetto ai paesi del nord Europa, l’abitudine al viaggio, da non confondere con la cosiddetta “villeggiatura”, anch’essa appannaggio delle classi borghesi, era piuttosto limitato, come lo era la frequentazione con altre lingue che non fossero l’italiano. E quindi, in una nazione in gran parte ancora rurale, ci fu una ricca fioritura di una letteratura (si pensi, ad esempio, a scrittori e giornalisti quali Arnaldo Cipolla, 1877-1938, e Arnaldo Fraccaroli, 1882-1956sono , solo per citare i più noti all’epoca), che si poneva in parallelo a quella salgariana ma “dal vero” ossia priva di racconto e drammaturgia, sebbene prodiga di colore esotico, di descrizioni di “usi e costumi”, due sostantivi che entrarono presto nell’uso comune rimanendovi ancora oggi. I loro reportages, indipendentemente dalle qualità descrittive, risentono della mentalità coloniale del ventennio fascista, intrisa di pregiudizi sulle razze ritenute inferiori che non sono mai veramente scomparsi come ci testimonia il presente. Distanti anni luce, dunque, dalle ampie trattazioni scientifiche delle civiltà “altre” della moderna antropologia culturale. Essi, tuttavia non vennero mai meno alla funzione per la quale erano stati creati, ossia quella di spalancare gli orizzonti a chi non aveva mai viaggiato. Ma un conto è non poter viaggiare e un altro è non volerlo affatto. Nella moderna società di massa, l’atto del viaggiare in gruppi organizzati è diventato, più che una necessità culturale o un desiderio di avventura e di esperienza, piuttosto un brand, un target sociale, uno dei molti modi di inseguire la borghesia nelle sue abitudini e nei suoi privilegi, ma in una forma che non è azzardato definire caricaturale. In un’epoca di turismo globale, si può anche scegliere di non viaggiare anche se lo si è sempre fatto; ci si può astenere dal farlo per la semplice ragione che non vi sia più nulla da scoprire o da vedere che non sia stato scoperto e visto, a meno che non si voglia del tutto rinunciare alla propria esperienza soggettiva che si potrebbe tradurre nelle seguenti parole: “anch’io voglio vedere” oppure “voglio esserci anch’io”. Ed è proprio sul delicato crinale dell’esserci o del non voler esserci che alcuni, spesso forniti di buoni strumenti culturali (come, ad esempio, un grande studioso di viaggi e scoperte geografiche che non amava muoversi dal proprio ambiente naturale e renderebbe più credibile la definizione ossimorica di “viaggiatore sedentario”), fondano il proprio rifiuto del viaggio preferendo compierlo “intorno alla propria camera” o “al proprio cranio” (3), intendendo per entrambi, la metafora del mondo che siamo pronti a immaginarci pur senza conoscerlo. Nella gran confusione del mondo globale, degli aeroporti che ne sono lo specchio riflettente, dei siti storici ridotti a luna-park, dei centri storici oggetto di gentrificazioni forzate che trasformano non solo i luoghi, ma anche la mentalità delle persone, del sistema perverso delle compagnie aeree, può accadere diffusamente che si ricorra alla letteratura di viaggio, perfino a quella più recente, per ritrovare nelle descrizioni dei luoghi e dei comportamenti locali, una sorta di autenticità perduta. Ma vi è anche un altro retro-pensiero ricorrente, quello di coloro (e non sono pochi) che pensano che “sotto cieli diversi esistano i medesimi bisogni, le speranze, i sogni ma anche le ingiustizie”, perdendo, quindi, ogni illusione di trovare in un possibile altrove quello che già sanno, ad eccezione, forse, della povertà del “terzo mondo” e di qualche monumento unico che diventa così più appannaggio del turista globale, desideroso di apporre l’ultimo selfie al proprio profilo facebook, in una società-mondo sempre più omologata, dove le cose essenziali della vita reale diventano più importanti di qualsiasi ricerca di una sempre più remota diversità. Sembrano essere, così attuali, allora, le parole pronunciate da Bruno Ganz nel film di Alain Tanner, Dans la ville blanche, 1983: “Risalgo la china. Non ne so più di prima”.
Note
- Si tratta di una delle più interessanti e organiche biblioteche private dedicate all’argomento specifico della letteratura di viaggio che può vantare un patrimonio di circa 3500 volumi.
- Galimberti Umberto, L’Etica del viandante, Feltrinelli editore, Milano 2023
- Vi è una chiara allusione al volume allo scrittore francese Joseph de Maistre (1753-1821) Viaggio intorno alla mia camera, 1795, Feltrinelli editore, Milano 2010 e a quello dell’ungherese Frigyes Katinthy (1887-1938) Viaggio intorno al mio cranio, 1937, Rizzoli editore, Milano 2010

