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Gentrificazione nelle campagne: morte seconda di una civiltà

di Maurizio Fantoni Minnella

Abituati ormai da tempo, nostro malgrado, a intendere gran parte dei centri storici sempre più come musei all’aperto, imbrigliati nella retorica della “bellezza del passato”, contenitori perlopiù di svago alimentare e del lusso, spazi destinati ai cittadini privilegiati, più spesso ci dimentichiamo che esiste un’altra forma di gentrificazione, non dissimile, dopotutto, rispetto a quella che, appunto, conosciamo meglio, ovvero quella della campagna, delle aree rurali che ancora fino agli anni del  cosiddetto boom economico, fornivano ampie risorse alimentari al paese e formavano almeno idealmente, ciò che gli storici qualificavano come “paesaggio agricolo” (1), che per secoli ha caratterizzato l’immagine di questo paese anche agli occhi dei viaggiatori stranieri, finchè non è cominciata la fase di sistematica aggressione a quello stesso paesaggio che in taluni casi è come scomparso dalla memoria collettiva (2).

Non ci riferiamo, principalmente, a tutta quelle aree un tempo a coltivo che verranno occupate durante la prima fase di industrializzazione e successivamente abbandonate nella fase opposta, tardo capitalista, della deindustrializzazione e conseguente dislocazione degli impianti industriali in un altrove fuori dall’Italia dove la mano d’opera risulti a basso costo, ma piuttosto a interi nuclei rurali appena all’esterno delle città un tempo  in grado di provvedere al proprio fabbisogno alimentare, oppure a singoli edifici di schietta architettura contadina, inevitabilmente destinati a nuove funzioni residenziali. Attori di tale fase di trasformazione sono la crisi drammatica del lavoro agricolo non più in grado di competere con la grande distribuzione, le società immobiliari, sempre a caccia di nuove occasioni di profitto su aree extraurbane di forte interesse anche paesaggistico e la classe borghese dei “nuovi ricchi”, attirata dalla pubblicistica che promuove la bellezza del territorio come occasione d’investimento e di opportunità residenziale. ”Una residenza nel verde della campagna” o quanto resta di essa, potrebbe essere uno dei tanti slogan scelti da un mercato sempre più insidioso. Così cambiano l’assetto sociale e la destinazione d’uso dei luoghi e dei singoli edifici; in conseguenza di ciò, scompaiono poco per volta una civiltà e una cultura, quel “mondo dei vinti” di cui parlò Nuto Revelli in un suo famoso libro (3). Dalla pianura alle alture montane, specialmente nel nord Italia, i borghi lentamente si sono spopolati per lasciare posto a un turismo di prossimità, costituito perlopiù da case-vacanza. Spesso si tratta di borghi fantasma che hanno provocato la fantasia di molti forestieri, sia per profitto che per il vecchio sogno di un mondo idilliaco lontano dall’alienazione urbana.

Un esempio significativo ci viene dato dal cinema: nell’opera prima di Giorgio Diritti Il vento fa il suo giro, 2005, un ex professore francese, deluso, diventato pastore di capre, si trasferisce in un borgo occitano sperduto, già in fase di trasformazione in villaggio vacanza, allo scopo di svolgere un’attività che fu un tempo degli abitanti del luogo, ma dovrà scontrarsi con il sospetto e la riluttanza degli ex abitanti che, vergognandosi di ciò che erano stati i loro genitori, vedono nello straniero colui che ha infranto l’immagine idilliaca di un luogo, un tempo segnato dalla fatica e dal lavoro. E’ dunque il trionfo del paesaggio senza l’uomo che per secoli lo ha modellato. Il film non lasciava dubbi sul declino dello spirito della montagna e della sua cultura, lasciando tuttavia intravedere una speranza nella figura di un giovane che prenderà il posto del pastore, ricominciando da dove questi si era interrotto.

Riscendendo in pianura, a pochi chilometri dal centro urbano di una ricca città di provincia lombarda, un intero borgo rurale affacciato su un lago prealpino, dopo essere quasi interamente acquistato da un banchiere locale, fu uniformato in base a parametri estetici dichiaratamente falsi, ossia riproducenti un falso antico toscano, (con ampio uso di colonne e archi inventati), secondo un progetto di “residenza continua di lusso” integrata alla natura circostante. Dopo avere liquidato gli ultimi abitanti che vivevano in vecchie case di ringhiera secondo i dettami dell’architettura vernacolare, i progettisti avviarono il progetto che rispondeva ad un principio elitario di country house diffuso con segnaletiche pretenziose del tipo “accademia dei piaceri campestri”. I borghesi, i nuovi ricchi al posto dei contadini, lo stile aulico che sostituisce quello autoctono, in un luogo dall’irresistibile fascino che qualcuno, a giusta ragione, ha voluto paragonare allo scenario pubblicitario del “Mulino bianco”. Il medesimo destino, sebbene meno esemplare, potrebbe toccare alla grande unità colonica Confalonieri-Belgioioso, ossia alla più imponente corte rurale, parte di una grande proprietà terriera lombarda. Costruita in stile eclettico verso la fine del XIX° secolo su una pianta quadrata e relativi corpi di fabbrica distribuiti su tre piani muniti    di logge colonnate con al centro la vasta corte dove si incrociavano le vite, alcune funzioni quotidiane nonchè gli animali e i mezzi agricoli delle tante famiglie che vi abitavano. Un microcosmo vivace chiuso da un massiccio portone d’ingresso che viene riaperto dopo decenni di solitudine e abbandono totale. Un grande spettacolo ci si pone davanti, di una potenza evocativa, perfetta sintesi di civiltà e architettura. Ma si tratta di un soffio: si sta preparando il nuovo scenario della “residenza in corte” per la solita borghesia che non potendo vivere in un castello, si accontenta di una futura dimora i cui elementi decorativi aulici, faranno presto dimenticare l’odore di fieno delle stalle e il vociare dei contadini e il rumore delle ruote dei carri.

A fronte del dissolversi non soltanto del lavoro della terra ma anche dei suoi manufatti, in larghissima parte demoliti o massicciamente trasformati talora in residenze di lusso, troviamo alle porte di Milano un luogo come la Corte Grande di Castellazzo di Bollate, emblema di una vita collettiva di mutuo aiuto e di scambio tra i lavoratori della terra nel cuore del parco delle Groane. Uno spazio popolato dai suoi abitanti fino agli ultimi anni del secolo scorso e successivamente semi abbandonato. Un luogo fantasma composto da una duplice corte interna per le abitazioni e una esterna per i mezzi agricoli e i loro depositi. Il fatto, forse, di essere una dipendenza della grande e signorile residenza della settecentesca Villa Arconati, ha fatto si che non venisse demolito. Tuttavia il suo destino è forse quello di testimoniare un’epoca in cui i contadini che vi abitavano partecipavano alla lotta antifascista. Nel 1946 il regista Aldo Vergano (1891-1957) ambientò nella corte grande una sequenza del film Il sole sorge ancora. Un anziano contadino, tra i pochi rimasti nella propria casa, nel vedersi rievocare quell’episodio leggendario, confessò con emozione, di aver scambiato per vera la fucilazione di un partigiano prevista dal copione. Visitare oggi un luogo come questo con le sue case “resistenti”, rispetto ad un loro possibile snaturamento, significa immergersi in un silenzio struggente, fortemente evocativo, che si coglie anche nella visione in un film dedicato a questo luogo (4). Opera di osservazione poetica di ciò che ancora esiste e si muove dietro i muri sbrecciati e nei cortili, in un’atmosfera di segreta malinconia.

 

Note

  1. Emilio Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Editori Laterza, Bari 1996
  2. Giovanni Cederna, La distruzione del paesaggio in Italia, Giulio Einaudi editore, Torino 1974
  3. Nuto Revelli, Il mondo dei vinti, Giulio Einaudi editore, Torino 1977
  4. Maurizio Fantoni Minnella, Case che resistono, film mediometraggio, 2014

 

*immagine realizzata con IA

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