Derive autoritarie. La nuova età del golpe

di Maurizio Fantoni Minnella –  Quando pronunciamo il termine “golpe” (inteso come “colpo di stato”) tendiamo ad evocare scenari politici in prevalenza latinoamericani; la parola stessa indica la provenienza dalla lingua spagnola, sebbene abbia nel corso del XX° secolo acquisito valore universale. Quando pensiamo ad un golpe latinoamericano, pensiamo subito a quello cileno del 1973 che portò al governo del paese una giunta militare, pur coscienti del fatto che in quel continente ve ne sono stati molti negli ultimi 120 anni. E ancora, se parliamo di “rivoluzione” come antitesi di “golpe” in quanto entrambi nascono, pur con alcune eccezioni, da opposte ideologie, quella comunista e quella di matrice fascista, dobbiamo mestamente riconoscere che oggi, i due termini, rispetto a taluni eventi politici, non sono poi così lontani. Per la prima volta, nel complesso scacchiere geopolitico, ci troviamo di fronte ad una profonda ambiguità nell’uso politico e strumentale dei due termini, ossia ad una duplice lettura che vedrebbe un golpe trasformarsi in rivoluzione, come, al contrario, secondo una nuova, revisionistica lettura della storia russo-sovietica, la Rivoluzione d’Ottobre sarebbe stato un golpe messo in atto dai bolscevichi, contro il governo provvisorio del generale Alexandr Kerenskij (1881-1970), risultato della cosiddetta rivoluzione di febbraio, borghese e liberale!…

Il caso del conflitto russo-ucraino, infatti, potrebbe diventare esemplare e fornire un modello per eventuali rovesciamenti politici le cui premesse, come nel caso della Georgia nel corso nell’anno 2024, sono già state enunciate e ben definite. Facciamo un passo indietro: per tutti i media occidentali diffusori capillari del mainstream politico dominante, “Maidan”, (dal nome della principale piazza di Kiev) fu la parola magica equivalente di rivoluzione che, come è ormai noto, portò nel 2014 la caduta del governo filo-russo di Mykola Azarov e la destituzione del presidente Viktor Yanukovich, a favore del nuovo governo filo-atlantista di Petro Poroshenko. La chiamarono rivoluzione “arancione” ma era un golpe camuffato dove, per la prima volta, hanno avuto un ruolo rilevante le masse agli ordini delle forze politiche che prepararono il golpe con l’aiuto delle formazioni paramilitari. Non un golpe “fascista”, dunque, con tanto di esercito al potere, i cosiddetti militari o i generali o i colonnelli, come accadeva nella Grecia degli anni settanta, ma una “rivolta” di piazza, pianificata a tavolino con il supporto esterno e perfino interno del governo degli Stati Uniti che portò, come invece si preferirebbe non ricordare, ad un’altra “Maidan”, nera questa volta e non più arancione: quella del 2 maggio 2014, meglio nota come la “strage di Odessa” consumatasi nella Casa dei Sindacati che provocò la morte violenta di 42 persone della fazione filo-russa della città sul Mar Nero.

Sull’esempio dell’Ucraina, nel Caucaso ex sovietico della Georgia, terra di poeti, potrebbero ripetersi la stesse dinamiche che fino a questo momento, tuttavia, non hanno prodotto il risultato sperato. Il fine politico è l’allargamento dell’influenza Nato nel Caucaso. Nell’attuale governo di Tibilisi vi è una curiosa anomalia, ovvero il conflitto tra una presidente eletta, Salomè Zourabichvili, arroccata su posizioni filo-atlantiste e un governo che pur non dichiarandosi apertamente filo-russo, sceglie una posizione di autonomia nazionale, anche in virtù della preoccupazione di un nuovo, possibile intervento russo nel paese, come avvenne nel 1994, qualora la Georgia scegliesse di stare con la Nato. Finora si è cercato di fomentare odio tra le fazioni all’indomani del referendum che, democraticamente, ha decretato la vittoria del partito di maggioranza. La tattica, ormai, è quella di spingere gente fanatica in piazza, di agitare la folla contro il governo, in nome della libertà. Un’altra parola magica da evocare in profondo richiamo a un’altra libertà più concreta e reale, quella del mercato. La recente vittoria alle presidenziali (il 14 dicembre 2024), del candidato filo-russo, l’ultraconservatore Mikhail Kavelashvili, non farà che accentuare la conflittualità interna al paese tra le due opposte fazioni. Vi è anche una possibile lettura secondo la quale lo schierarsi con la Nato equivarrebbe a una posizione “progressista” nel nuovo scacchiere ideologico, mentre il dichiararsi filo-russo sarebbe una dichiarazione di conservatorismo. Si tratta, ancora una volta, di un bipolarismo perverso il cui fine è quello di imporre la logica dello schieramento (o con noi o contro di noi!), negando la complessità della politica e delle scelte alternative.

Vi è, infine, un altro modello o precedente di riferimento, per inficiare un esito democratico, quello fornito da Donald Trump durante l’assalto al Campidoglio avvenuto il 6 gennaio del 2021, ossia, accusare l’avversario di falsificazione dell’esito elettorale, a riprova del fatto che oggi, il richiamo alla democrazia (diventata ormai non più un fine ma un mezzo per impadronirsi del potere) è condizione necessaria anche per i più scaltri e incalliti antidemocratici, aspiranti all’autogolpe autoritario.

*immagine creata con AI

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