di Edoardo Crisafulli – Un articolo sull’Economist descrive i mali dell’antipolitica, fenomeno planetario somigliante a una sorta di Buran, il vento fortissimo, di aria gelida, che spazza le steppe euroasiatiche ed è spesso accompagnato da bufere di neve. Se il Buran è causato da una depressione geomorfologica, l’antipolitica sgorga da uno scarto depressivo tra ideale e realtà tipico di chi nutre aspettative eccessive, ovvero: infantili. Chi sogna l’impossibile è condannato a cocenti delusioni: la politica democratica è il regno del compromesso. Le situazioni incancrenite sono un terreno fertile per le idealizzazioni: il fallimento della politica riformista e/o pragmatica genera, per reazione, un desiderio smodato di utopie salvifiche e di leader miracolosi che le realizzino. Il che è puntualmente accaduto dal 2007-8 in poi: la prima grande crisi finanziaria globale dei tempi dell’Euro ha messo a nudo l’impotenza e/o l’incapacità delle élite democratiche in Occidente: i capitani delle navi hanno rischiato il naufragio nella tempesta. Ovvio l’esito: s’è scatenato il vento polare del Buran. Il populismo anti élite – nelle sue varianti nera e rossa – ha quel vento lì in poppa. Gli adepti dell’antipolitica sfruttano cinicamente i mezzi che la Rivoluzione digitale mette a disposizione. Sul tema consiglio due saggi eccellenti: il ‘profetico’ Giuseppe Canterano, L’antipolitica, uscito prima dell’ultima crisi finanziaria, e cioè nel 2000, e il più recente Antipolitica di Vittorio Mete, pubblicato nel 2022.
Ecco, per sommi capi, lo scenario dell’antipolitica, tutti i punti sono concatenati:
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Tramonto della figura dell’intellettuale impegnato, a tutto tondo (Pasolini, Sartre e George Orwell): gli intellettuali di oggi, svincolati dai partiti storici (ridotti al lumicino o scomparsi), si atteggiano a Primedonne all’Opera, ripetono, tanto a destra quanto a sinistra, consunti e banali cliché anti occidentali o narrazioni deprimenti sul declino dell’Occidente, da loro peraltro desiderato in nome di un autolesionismo suicida;
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Morte dello spirito critico, e rifiuto dell’autocritica nella propria comunità, che è cementata dai test di purezza ideologica. Il caso Brexit docet: chi ragionava al di fuori di schemi rigidi precostituiti veniva bollato, a sinistra, come un bigotto nazionalista, se (pur laburista) era a favore dell’uscita dalla UE, a destra come un traditore della patria se (pur conservatore) era contrario – questa è la morte dell’idea liberale per cui il tuo interlocutore può essere persuaso razionalmente, e comunque merita il tuo ascolto perché magari delle buone ragioni le ha, anche quando sbaglia. La morte dello spirito critico è la ricetta ideale per ingrassare i faziosi di ogni risma che sono, appunto, illiberali. Intendiamoci: i test di fedeltà, a sinistra, ci sono sempre stati, ma un tempo c’erano anche le voci dissenzienti: nel dopoguerra militavano intellettuali della levatura di un Italo Calvino il quale, nel 1956, a seguito della brutale invasione dell’Ungheria da parte dell’Armata rossa, lasciò sdegnato il PCI;
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Semplificazione e superficialità a tutto gas: più un problema (tipo l’immigrazione di massa) giganteggia e presenta molteplici sfaccettature, più viene appiattito su una sola dimensione – pane, questo, per i denti dei populisti: se le soluzioni paiono semplici, i leader che le propongono vengono eletti a furor di popolo. E chissenefrega se i problemi concreti della gente restano irrisolti: ci sarà sempre qualcuno su cui scaricare la colpa del proprio fallimento. Ergo: totale irresponsabilità delle classi dirigenti populiste;
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Fine della distinzione (temporale e di contenuto) fra campagna elettorale e lotta politica “ordinaria”. I politici rincorrono il gradimento, sempre fluttuante, degli elettori: siamo impantanati in spot elettorali permanenti all’interno di una nebulosa, l’infosfera, dove spadroneggiano i social media propagatori di “false verità” (Facebook, Instagram ecc.) e di accuse reciproche al vetriolo. Così avviene che al posto dei dibattiti autentici di un tempo (quelli nei momenti di “bonaccia”) Assistiamo, inermi, a campagne mass mediatiche martellanti all’insegna della demonizzazione dell’avversario, dipinto a tinte fosche come un nemico mortale;
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Personalizzazione ed esasperata faziosità della politica. – nessuna argomentazione razionale tiene il campo o tiene desta l’attenzione quanto la “shit storm” social mediatica e/o il deridere i difetti fisici di un personaggio odiato;
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Psicopatologia della politica, I: la “character assassination” dell’avversario/nemico sui social media incoraggia la dinamica simpatia-antipatia, con prevalenza di quest’ultima: si tende a votare contro piuttosto che a favore di qualcuno – di recente un giornalista, spiazzato dalla complessità della questione ucraina, mi ha detto papale papale: “preferisco il dittatore Putin a quell’ebreo di Zelensky, un burattino degli americani: mi sta sui cosiddetti, non lo sopporto, a partire da come parla e si veste” (sic!);
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Psicopatologia della politica, II: il trionfalismo narcisistico va per la maggiore proprio quando sarebbe vitale, per la propria sopravvivenza, battersi il petto e riconoscere i propri errori. Il punto dolente è che l’autocritica non la vogliono neppure gli elettori, galvanizzati dalle “vittorie mutilate” della loro fazione. L’importante è fare un dispetto all’avversario, umiliarlo, sfregiarlo. È il caso, per esempio, di Rimini, dove, alle recenti regionali, il 41% raccolto dal PD nelle urne (= 44.222 elettori) corrisponde a un misero 15% degli elettori potenziali, intendo quelli chiamati alle urne (285.980), eppure il Sindaco in carica, esaltato, se ne è uscito con dichiarazioni mirabolanti – proprio a ciò serve la demonizzazione dell’avversario e l’abolizione di ogni serio dibattito critico: ad evitare rese dei conti con sé stessi, strumento per blindare al potere élite politiche autoreferenziali;
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Logica e coerenza sono inattuali, relitti del passato. I principi vengono difesi solo nella misura in cui sono utili al mio leader idolatrato (sono garantista se viene inquisito il mio idolo, divento giustizialista se a essere indagato è il mio avversario; sono pacifista se Israele e l’Ucraina si difendono, giustifico il ricorso alla violenza se Hamas combatte il sionismo ecc.);
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Dilagante emotività viscerale, che è tutt’altra cosa dalla passione, dall’idealismo nobile. Rabbia e odio sono veicoli di consenso e infatti il linguaggio della politica è iperbolico: ovunque vi sono genocidi in atto; ovunque alligna la minaccia fascista o nazista; ovunque vengono commessi crimini contro l’umanità; ovunque c’è un redivivo Apartheid; ecc. – presto non ci saranno più vocaboli idonei a descrivere (e discernere fra) i malanni reali;
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Disonestà intellettuale e incoerenza. Oggi è più probabile che sia l’elettore di sinistra a eclissarsi, se deluso dalla propria leadership. Si pensi all’astensionismo dei democratici nelle recenti elezioni USA (milioni di democratici non hanno votato!) e a quello, negato dai vertici del PD, degli elettori di sinistra in Emilia-Romagna. Il mantra, dei leader di sinistra, è “non ce ne può fregare di meno se ha votato meno del 50% degli elettori: l’essenziale è battere la destra”. Ma, a questo punto, è impossibile – se si vuol mantenere un minimo di onestà e coerenza – criticare la destra quando conquista il governo nelle medesime condizioni: in presenza cioè di un massiccio astensionismo;
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Culto del leader, pur in assenza di ideologie vere e proprie. La cosa bizzarra è che lo spirito gregario ha contagiato come un morbo soprattutto la destra estrema o populista: oggi il militante o elettore di quell’area, carico d’odio per la sinistra, non abbandonerebbe il proprio idolo neppure se è impresentabile, commette errori madornali o dice evidenti falsità. Più un politico a noi caro o simpatico attacca con virulenza, più le spara grosse, più acquisisce consensi. Si può anche accusare impunemente i migranti di pasteggiare con l’arrosto di teneri cagnolini e gattini rubati alle famiglie borghesi e benpensanti;
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Morte violenta della verità. I fatti oggettivi e incontestabili sono una finzione: ogni posizione politica (tranne la propria, ovvio) è riconducibile a narrazioni ideologiche, a loro volta legate a interessi subdoli e malcelati. In sintesi: siamo noi che creiamo la realtà in base ai nostri desideri o interessi, sicché le fake news o bufale o balle sono opinioni legittime e, magari, veritiere. Questa deriva relativista nasce dalla lenta una inesorabile erosione del concetto di verità propiziato dalle teorie filosofiche postmoderne nel secondo Novecento. È così che, ahimè, in Occidente hanno attecchitole assurde tesi della propaganda russa sulla minaccia esistenziale costituita dall’immaginario genocidio anti russo nel Donbass, dagli inesistenti nazisti ucraini, dalla bellicosità inventata della NATO (organizzazione difensiva!), che avrebbe aggredito la Russia inerme su mandato subdolo degli USA, ecc.;
Tutto ciò confluisce in una conclusione inquietante: viviamo nell’epoca del fanatismo e della post-verità. In assenza di ideologie strutturate. E, per giunta, è venuto meno l’ancoraggio a solide teorie o filosofie politiche. Assistiamo, sgomenti, al divorzio fra politica e cultura. I partiti e i movimenti si stigmatizzano a vicenda come forze sovversive, minacce all’ordine costituito o alla pace globale. La destra populista è molto abile in questo esercizio: eccoli, i nemici che evoca: il globalismo rapace e carognesco delle élite (che sono sempre altro da noi), l’EURO e le banche sanguisughe, la cancel culture promossa dalle sinistre, la dittatura woke e del gender che vuole distruggere le società finora armoniose, fondate sulla famiglia tradizionale modello “Mulino Bianco”, la lobby LGBT, l’interventismo Liberal a favore della democrazia sulla scena internazionale, che nasconderebbe sordidi interessi economici, i complotti delle sinistre smidollate e anti patriottiche che mirano alla sostituzione etnica in Europa. Altrettanto assurda la paranoia del fascismo eterno che affligge da sempre una parte consistente della sinistra. La quale, ahimè, spesso s’immagina gli stessi spauracchi che inorridiscono la destra, l’unica differenza è che la sinistra li declina con un linguaggio diverso, mantenendo tuttavia lo stesso impianto paranoico: l’Euro quale progetto antipopolare perché crea povertà (leggasi: impedisce la crescita ipertrofica del debito nazionale dei paesi membri); il capitalismo speculativo delle grandi banche, che sarebbero in combutta fra loro; gli Stati Uniti personificazione del male perché nazione imperialista (altroché democrazia!) succube della lobby delle armi e degli idrocarburi; la globalizzazione selvaggia propiziata dall’Occidente brutto e cattivo, perché le dittature in giro per il mondo sorgono per colpa dell’uomo bianco, che è geneticamente colonialista e sfruttatore.
Se non ci sono avversari da battere nelle urne mediante l’argomentazione e le proposte concrete, e combattiamo invece contro nemici che sono astrazioni, fantasmi minacciosi, ne consegue che solo la sinistra populista è in grado di rivaleggiare con il suo alter ego, la destra populista (si pensi al successo dei 5 stelle, pochi anni fa). Così tende a vincere un partito trasversale: quello dell’antipolitica. E infatti da anni i riformisti europei e i Liberal americani, essendo troppo ragionevoli nelle analisi e nelle proposte, arrancano e arretrano su tutti i fronti, sia nelle urne che nella sfera culturale. All’epoca della Guerra fredda la posta in gioco era chiarissima: o capitalismo rampante (modello USA), o capitalismo urbanizzato dalla social-democrazia (modello europeo), ma pur sempre nel contesto dell’Alleanza atlantica, oppure comunismo totalitario (modello URSS e CINA). Il paradosso dei nostri tempi è questo: in Europa e negli USA veniamo trascinati per i capelli in una nuova Guerra fredda, benché non vi sia più l’Unione Sovietica né, in Europa, un partito comunista in grado, se vincente, di modificare radicalmente l’assetto economico e politico delle nostre società. Dirò di più: tutta questa belligeranza e faziosità è ridicola: anche le culture politiche tradizionali sono in affanno, se non addirittura in via d’estinzione, e tutti, volenti o nolenti, devono fare i conti con i vincoli esterni, sovranazionali, imposti dall’UE o da potentati internazionali. E infatti, finita la campagna elettorale vera e propria, le differenze fra i partiti che si alternano al governo sono minime: chi non crede all’intervento pubblico nell’economia? Chi non crea, se può, debito pubblico per prendere voti? Chi distruggerebbe davvero lo Stato sociale? Chi abolirebbe la proprietà privata dei mezzi di produzione o nazionalizzerebbe gran parte delle industrie/aziende? Le differenze fra destra e sinistra appaiono radicali alle tifoserie contrapposte proprio perché si combatte una guerra permanente fumosa, ideologica, la quale poco ha a che fare con la concretezza dell’agire politico. Come dicevo: ogni logica è implosa: come può essere più pericoloso un PD, diciamo così, LGBT friendly rispetto a un partito comunista rivoluzionario? Come può essere pericoloso un leader di destra ingabbiato nella logica d’acciaio dell’UE? Un’altra domanda, tutt’altro che retorica, esige una risposta chiara: qual è la posta in gioco oggigiorno? Se non ci sforziamo di rispondere, continuerà a spirare il vento dell’antipolitica, che è tossico per i riformisti. La posta in gioco, a mio avviso, è la difesa a oltranza della società aperta, ovvero della liberaldemocrazia con robuste iniezioni socialiste nata in seno all’Europa postbellica. Una società, quella aperta, che si rafforza con il dialogo e il confronto critico, all’insegna del concetto di verità fattuale, e si avvizzisce quando la politica, trasformatasi in antipolitica, è mera propaganda, odio, faziosità, veicolo di fake news, menzogna e cattiveria esibite con orgoglio e sadismo.
*immagine realizzata con AI
