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Il mare come specchio dell’umano: Il pavone di porcellana di Fabio Florindi

-di PIERLUIGI PIETRICOLA-

 

C’è una particolare soddisfazione nel leggere un romanzo che non chiede al lettore di inseguire l’ennesimo artificio narrativo, ma lo invita piuttosto a considerare la storia come un organismo vivo, costruito con pazienza, misura e una consapevolezza sempre più rara. Il pavone di porcellana, il nuovo libro di Fabio Florindi, appartiene con pieno diritto a questa categoria. Ed è per questo che sorprende, e ancor più convince.

La trama è, almeno in apparenza, quella di un’avventura marinaresca: un veliero, un viaggio che devia dal percorso stabilito, il peso del caso che si abbatte sulla vita dei protagonisti. Ma Florindi non cerca mai la spettacolarizzazione. Piuttosto, usa il mare come un grande schermo su cui proiettare la fragilità dell’uomo, le sue illusioni, i suoi desideri mai del tutto confessati.
Il titolo stesso è un indizio: il pavone di porcellana – fragile, immobile, quasi alieno in un contesto dominato dalla salsedine – diventa metafora di ciò che tentiamo di proteggere nonostante tutto. Un simbolo prezioso proprio perché precario, come lo sono molte delle cose che ci ostiniamo a salvare dalla durezza del mondo.

Ma è lo stile che colpisce davvero. Florindi scrive con una sobrietà musicale, curata, priva di vanità. Le frasi sono pensate, non assemblate; la punteggiatura, usata a servizio del ritmo; le descrizioni, asciutte ma capaci di illuminare. È una prosa che non cede alla tentazione dell’eccesso: preferisce la precisione alla ridondanza, la chiarezza al compiacimento.
Eppure, qua e là, una frase si apre a improvvise accensioni liriche, come se la realtà – anche la più ruvida – possedesse un nucleo di mistero che merita di essere evocato, non spiegato.

L’altro punto di forza del romanzo è la sua struttura. Florindi organizza la narrazione con un rigore che non soffoca, ma regola: capitoli brevi, episodi scanditi come tappe di un viaggio interiore, ritorni tematici mai esibiti. Ne deriva una trama che procede con naturalezza, ma che rivela, a chi la osserva con attenzione, un’architettura tecnica tutt’altro che semplice.
È la dimostrazione che la letteratura può ancora permettersi di essere costruita, e non soltanto “scritta”: che un romanzo è un’operazione di ingegneria narrativa prima ancora che un’idea da mettere su carta.

Il pavone di porcellana è, in definitiva, un libro che riafferma un principio tanto semplice quanto spesso dimenticato: che il raccontare non è un atto meccanico, ma un gesto di responsabilità. Florindi lo compie con cura, con rispetto per il lettore e con una visione che, pur senza clamore, lascia il segno.
E quel pavone – immobile, fragile, enigmatico – rimane nella memoria come il sigillo più vero di un romanzo che sa essere avventuroso senza rumore, pensoso senza gravità, e soprattutto narrativo senza perdere il senso della realtà.


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