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Sulla bellezza e i suoi nemici nell’era del consumo globale

arte e bellezza

di Maurizio Fantoni Minnella

 

  1. Se ormai tutto è mercato, prodotto di mero consumo, perché non dovrebbe esserlo anche un bene culturale come un museo, un dipinto di fama universale oppure un’architettura, un complesso di architetture sacre o profane, o infine, interi quartieri storici, da Firenze e Samarcanda? E’ giunto il momento in cui la bellezza si guardi, si difenda da se stessa. Può, forse, sembrare un paradosso ma è proprio il ricorso alla bellezza come brand, come risorsa di mercato globale di massa, a minarne dall’interno la sua stessa ragion d’essere che è il mistero della propria unicità. Ma è proprio quest’ultima a trasformarsi in eccellenza, pronta, dunque per essere serializzata, come ci ha indicato l’opera di Andy Wahrol, che ne incarnò perfettamente lo spirito. Oggigiorno, contemplare nel silenzio, condizione necessaria ad un simile atto, un ‘opera d’arte in un museo, è cosa impossibile, ormai remota. Si è come soffocati dal richiamo delle masse verso un rituale coatto, obbligato che poco o nulla ha a che vedere con il senso di ciò che siamo chiamati a vedere. Anzi, l’atto stesso dello sguardo si esaurisce in se stesso come atto dovuto in quanto omaggio al rituale dell’apparenza. Tutto questo aveva visto e anticipato Guy Debord ne La società dello spettacolo, 1967. Fuggire dalle cosiddette “grandi opere”, significa, in questo senso, escludere quegli spazi in cui il destino del singolo come soggetto pensante volontariamente si annulla in quello di una collettività che ha ormai accolto passivamente le sirene del mercato culturale, scambiandolo per verità assoluta o almeno come opportunità di riscatto sociale. L’arte e la cultura, del resto, nella nuova vulgata dominante, se non sono business, non sono niente, nella modalità più diffusa dell’esclusione o dell’autoesclusione.
  2. Quando viaggiamo, in realtà, non andiamo alla scoperta di qualcosa che ancora non conosciamo, ma, al contrario, non facciamo altro che confermare ciò che già esiste, ossia quell’a priori che garantisce continuità e legittimità alla potente macchina della programmazione sociale e culturale. I paesaggi naturali e urbani, i complessi monumentali più celebrati si trasformano in scenografie dell’ovvio, pronte a soddisfare, non le esigenze di un pubblico curioso di conoscere e di capire, ma il bisogno ormai insopprimibile di “esserci”, che si tratti della piazza del Campo di Siena, di quella del Mercato di Lucca costruita nel XIX° secolo sul sito di un anfiteatro romano, o dei navigli milanesi, piuttosto che dei complessi templari di Prambanan o di Borobudur a Java, in Indonesia, rispettivamente indù e buddista, trasformatisi in magnifici sfondi per selfie o in “parchi delle meraviglie”, per taluni versi tra loro intercambiabili. Tutto diventa oggetto della medesima percezione di una grandiosità spettacolare piuttosto che delle sue ragioni materiali o spirituali. La discussione, spesso polemica, comunque fortemente critica, sul destino dei centri storici, nasce proprio da un progetto di “ricostruzione della bellezza” ad uso delle nuove classi sociali benestanti e di una moltitudine di gente distratta, attratta prevalentemente dalle opportunità di consumo alimentare e di svago offerte dalle nuove attività sviluppatesi sul territorio. Perfino in taluni importanti edifici come la chiesa di Santa Croce, il Duomo di Firenze o quello di Milano e molte altre ancora, ritenute di assoluta eccellenza, il valore del sacro passa in secondo piano rispetto a quello economico; infatti per accedervi vi è un biglietto da pagare piuttosto caro anche per pregare!… A conferma del processo in atto di musealizzazione di qualsiasi luogo in grado di diventare una copiosa fonte di lucro.

Al viaggiatore che un tempo sognava il viaggio come esperienza non resta che trasformarsi in turista del già visto, dell’accumulo di luoghi appena sfiorati o immortalati da banali cellulari, di bandierine segnaluogo con cui poter dire con orgoglio: io sono stato qui!. Chissà che non abbia davvero ragione il regista Werner Herzog (che nel volume Sentieri nel ghiaccio, 1974 (1), narra di un viaggio da Monaco a Parigi per salutare un’amica morente) (2), quando afferma che il solo viaggio possibile è quello a piedi, il quale, aggiungiamo noi, cambia la prospettiva perfino di ciò che vediamo trasformandolo in esperienza esistenziale. Oppure quello su quattro ruote che si sposa con la dimensione accidentale dell’esistenza quotidiana, della casualità, del godimento del paesaggio en plen air, ma soprattutto dell’attraversamento di luoghi sconosciuti, necessari ed essenziali per raggiungere una meta, a meno che essa non sia semplicemente quella del viaggio stesso, quell’autentico spirito on the road mai veramente dimenticato, di kerouachiana memoria.

  1. Esiste, forse, anche una speranza, quella di poter conservare la bellezza dentro di sé, frutto dell’incontro tra realtà e immaginazione, diffidando di quella scaturita da grandi proclami o da promozioni culturali atte a valorizzare i territori ma in realtà finalizzate al puro profitto, senza dimenticare che essa è pur sempre speculare al proprio contrario, che maggiore e minore sempre si confondono e che infine, stando alla lezione di Paolo Sorrentino, sono gli uomini con le proprie miserie e la propria interiore bruttezza a fare da contraltare ad una bellezza consegnata alla storia come freddo diamante, oggetto di mera contemplazione se si è inteso, con insistenza, privarla della propria anima.

 

Note

  1. Werner Herzog, Sentieri nel ghiaccio, Ugo Guanda editore, Milano 1984
  2. Si trattava di Lotte Eisner (1896-1983), scrittrice, critico cinematografico e grande studiosa del cinema espressionista tedesco.

 

 

 

 

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