-di RITA BORELLI-
Nel mondo della letteratura, accade di incontrare scrittori che non solo catturano l’immaginazione attraverso le loro opere, ma che lasciano un’impronta profonda con la loro personalità. È con grande piacere che in occasione della pubblicazione del suo ultimo romanzo Sono tornato per te, ci addentreremo nel mondo di Lorenzo Marone.
Scrittore affermato e ampiamente letto, il cui talento letterario è solo una delle molteplici sfaccettature della sua personalità. Attraverso le pagine dei suoi libri, si svela una persona di profonda sensibilità e, soprattutto, di umanità che si riflette sia nelle sue opere che nella sua vita. In questa intervista scopriremo i segreti delle sue capacità letterarie, e le sfumature di un persona che ha una bella anima.
La prima domanda che vorrei rivolgerti è questa: se ti chiedessi di descriverti cosa mi racconteresti di te?
Che non sono una persona statica e quindi non riesco a definirmi. Sono in continua evoluzione. Cambio tantissimo e credo che questo sia evidente anche in quanto racconto attraverso i miei libri. Quello che posso dirti di me è quello che sento di essere in questo preciso momento, che non è quello che sono in senso assoluto.
E come ti senti di essere ora?
Sono aperto alla vita, nel senso più ampio del termine. Sono aperto verso il prossimo, verso l’essere umano in generale ed in me è forte il desiderio di conoscerne la vera essenza così da potermi relazionare e interfacciare con l’altro, con quante più persone possibili.
In questo periodo gli esseri umani tendono a chiudersi secondo te?
Sì. Ci si chiude per tantissime ragioni: per motivi personali o per sofferenza. Quando si soffre si diventa egoisti e incapaci di vedere gli altri. Si cerca di non mostrare la propria sofferenza chiudendoci in noi per proteggersi. Ma in generale è tutta la società che tende a chiudersi. Se si trovasse il coraggio di aprirsi agli altri, di donarsi, ci si renderebbe conto che poi si riceve moltissimo. E questo è molto bello e appagante.
Secondo te il dono che ognuno può fare agli altri delle proprie esperienze è uno scambio di energie che potremmo paragonare a dei vasi comunicanti, che arricchisce e rinnova?
Sì, esattamente. Molto spesso la nostra chiusura è involontaria. Lo facciamo senza rendercene conto, e invece dovremmo fare dono di noi, perché in definitiva siamo degli animali sociali. Questa invece è un’epoca di grande solitudine.
Prima di parlare del tuo ultimo lavoro vorrei chiederti: quando è cambiata la tua vita? Tu hai lavorato anche come avvocato, vero?
Sì, per alcuni anni ho lavorato e praticato abbastanza male quel lavoro.
Non ci credo. Perché dici così?
Perché scelsi la strada più semplice lasciandomi convincere dalla mia famiglia. Loro avevano uno studio avviato e mi convinsero ad entrarci. Devi considerare che sia mio padre che mio zio, e anche mio fratello, sono tutti avvocati. Così mi lasciai persuadere, ma soprattutto mi lasciai prendere dalla comodità della cosa, pur sapendo dentro di me che quella vita non mi piaceva. Anche perché non sono quel tipo di persona che ama litigare con il prossimo.
Poi cosa accadde?
Ci fu un periodo della mia vita che definisco di lucida follia e che non ha nulla a che vedere con la scrittura. Quella è venuta dopo, quando sono tornato a scrivere per me stesso. Era un periodo complesso della mia vita e la scrittura, allora come oggi, è sempre stata uno strumento terapeutico che mi consente di ascoltarmi. In quel periodo attraversai un grande dolore: ci eravamo appena sposati con mia moglie e lei non stette bene, si ammalò. Il dolore, la sofferenza ti mettono con le spalle al muro. Cesare, il personaggio del mio primo romanzo, La tentazione di essere felici, nacque anche come conseguenza di quel mio stato di sofferenza. Descrivere un uomo di quasi ottanta anni che si guarda indietro, deluso dalla sua mancata esperienza di vita è stato come guardare dentro di me. Quel romanzo lo scrissi che non avevo ancora quarant’anni. Forse anche grazie a questa storia mi resi conto che non stavo vivendo la vita che volevo, non stavo rendendo degno il mio tempo. È da lì che poi è partito tutto. Così andai da mio padre e gli dissi: “Guarda papà, io me ne vado”.
La sofferenza è stata la molla che ti ha fatto decidere di intraprendere un’altra strada, determinando la tua decisione di cambiare?
Quella sofferenza mi ha aiutato a prendere una decisione che probabilmente avevo già maturato in me, ma della quale non volevo prendere coscienza. Molto spesso, per non dire sempre, noi sappiamo quali sono i nostri desideri e le strade che vorremmo percorrere. Però a livello più o meno conscio o inconscio ci manca il coraggio, siamo legati a doppio filo sentendoci prigionieri dentro una gabbia. Come avviene nel racconto del mio romanzo Le madri non dormono mai. Poi capita che arriva un evento dirompente, come la morte o perdere un affetto o addirittura una malattia: e queste circostanze fanno finalmente emergere il coraggio e l’energia che abbiamo imbrigliata dentro di noi e che si impossessa del nostro essere e non riusciamo più a fermarla.
Nel tuo romanzo Magari domani resto hai esplorato il tema del futuro incerto. Cosa ti ha spinto a parlare di questo argomento? Qual è il personaggio in cui ti identifichi?
Questo romanzo ha ormai sei anni, e Luce, la protagonista, resta ancora uno dei miei personaggi più amati. Racconto una Napoli diversa, dei Quartieri spagnoli che in sei anni sono totalmente cambiati. Credo che prima o poi dovrò tornare a raccontare un seguito, un qualcosa di quel quartiere e di quella città lì che ora è un’altra cosa. In quel periodo avevo pubblicato altri due romanzi nei quali avevo raccontato la Napoli borghese. In Magari domani resto c’era invece l’esigenza di raccontare una Napoli più ventrale, ma sempre a modo mio. Scrivere del bene all’interno del male. Raccontare di questa donna che ha la capacità di non farsi calpestare i piedi, di farsi rispettare, che cerca la legalità perdendo anche il fratello all’interno di un mondo nel quale è facile anche potersi perdere. C’è molta Napoli dentro quella narrazione, molto sul restare o meno in questa città.
Ovvero?
La generazione successiva alla mia, quella dei quasi cinquantenni, è l’ultima, a rimanere in città. Già la generazione dei miei fratelli, che sono poco più piccoli di me, – i cosiddetti millennials -, nati negli anni Ottanta, sono andati via da Napoli. All’epoca questo era un tema particolarmente sentito, così come lo è tutt’ora, perché continuiamo a perdere giovani. Tieni presente che in ogni mio libro ci sono alcune piccole cose autobiografiche, ma non è certamente questo il libro che più mi rappresenta.
Vorrei chiederti a proposito del tuo romanzo La tentazione di essere felici, da cui Gianni Amelio ha tratto il film La tenerezza, che effetto ti ha fatto vedere i tuoi personaggi prendere vita sullo schermo? Sono rimasti gli stessi che hai descritto tu?
No. In realtà il film non c’entra quasi nulla con il mio libro, nel senso che il film non lo sento particolarmente mio. Gianni Amelio ha scritto un’altra cosa, ha preso forse spunto dal mio personaggio e forse nella prima mezz’ora del film rivedo un po’ della mia narrazione. Dopodiché è tutt’altro. È stata ovviamente una cosa che mi ha gratificato tanto perché era il mio primo libro e Gianni Amelio, grande maestro, aveva deciso di portarlo sullo schermo, ma non lo sento particolarmente mio.
Parliamo ora del tuo ultimo romanzo, Sono tornato per te. È un libro senza dubbio d’amore. Diciamo che descrivi l’amore sentimentale di due giovani e, passami il termine, l’amore universale e l’amicizia. Insieme c’è anche la sofferenza di persone che hanno vissuto situazioni tremende nei campi di concentramento con gli ebrei lì deportati.
Sì, però non parlo propriamente degli ebrei. Parlo del campo di concentramento e credo personalmente di poterlo definire un romanzo sull’amore in tutte e due le parti.
Certamente. Nella seconda parte descrivi però l’amore universale, l’amicizia e la sofferenza. Sei d’accordo?
Da sempre avevo avuto in me il desiderio di raccontare una storia d’amore romantica, che era poi in parte quella dei miei nonni. Già quando avevo più o meno dodici o tredici anni, la curiosità mi spingeva a fare domande ai miei nonni, chiedendo come si fossero conosciuti, come mio nonno fosse riuscito ad avvicinare mia nonna. Loro mi raccontavano delle difficoltà di vivere un sentimento così forte a sedici, diciassette anni, e che per incontrarsi si dovevano nascondere. Poi scoppiò la guerra e dovettero separarsi. La loro storia appariva ai miei occhi di tredicenne come una storia d’amore complicata ma al tempo stessa molto romantica.
Lo era davvero!
Certamente sì. Poi mio nonno tornò fortunatamente dalla guerra e vissero insieme una vita sana, diciamo così! Bisticciando magari tutti i giorni… Per me comunque la loro era una storia d’amore romantica. Quindi il mio desiderio, anzi la mia volontà, da un bel po’ di tempo era quella di raccontare una storia tenera del passato e contemporaneamente poter raccontare il mio intenso rapporto con la natura.
Il tuo rapporto con la natura lo hai raccontato anche in altri tuoi romanzi però.
L’ho fatto ne La donna degli alberi e ne Il bosco di là e prosegue anche nella prima parte di Sono tornato per te. Per me è importante raccontare la vita anche attraverso tutto ciò che ci circonda, la possibilità di dare valore alle piccole cose che sono intorno a noi, che poi è quello che ho fatto ed amo fare. Poter esaltare i profumi, i colori. Raccontare l’essere vivente in tutte le sue sfaccettature attraverso una storia vera, – che io conoscevo da un sacco di tempo e che non sapevo come trasferire in un romanzo. Una storia frutto di testimonianze da parte di sopravvissuti.
Per cui i personaggi che tu descrivi nel tuo romanzo sono delle persone che ti hanno raccontato i dolori che hanno patito?
Sono testimonianze che io ho ritrovato, e che leggendole mi sono reso conto che non riguardavano solo coloro che combattevano la boxe per avere salva la vita, ma riguardavano anche il vissuto di altre persone che hanno raccontato il periodo della loro prigionia. Ho scoperto un sacco di aneddoti pieni di romanticismo, di amore, di solidarietà. La figura del professore per esempio, oppure la storia di Patrick e Cécile sono piccoli episodi che hanno un profondo senso nobile che ho cercato di riportare a dimostrazione di quanto l’amore sia salvifico, perché è inteso in un senso ampio del termine e non è solo quello sentimentale di Cono per Serenella. Ma l’amore di Cono per le sue radici, per la sua terra, per la sua famiglia, per l’essere umano verso un altro essere umano è altrettanto importantissimo. Cono torna da Serenella anche grazie alle amicizie di persone capaci di aiutare il prossimo, come Palermo, che considero un angelo, ma anche di altri amici.
L’amore nobile nel senso assoluto del termine.
Ho innanzitutto voluto parlare di una storia non conosciuta, quella della boxe nei campi di concentramento, e allo stesso tempo di come l’amore dell’essere umano verso l’altro sia una benedizione, soprattutto in un periodo storico nel quale tutto ciò era più alla portata di quanto lo sia oggi. La vita di allora scorreva più lentamente, c’era una maggiore attenzione nei confronti degli altri. Oggi invece tutto va via veloce ed abbiamo perso di vista l’essere umano, la curiosità, l’interesse per l’altro, anche a causa forse del progresso tecnologico. Ci sembrerà banale quello che Dante diceva quasi mille anni fa: “L’amor che muove il sole e l’altre stelle”. Tutto obbedisce all’amore e se andiamo a semplificare ci accorgiamo che è davvero tutto lì, non c’è altro. È tutto nella nostra capacità di contenere, conservare e scorgere l’amore e di vivere da innamorati nel senso più ampio del termine.
Innamorati della vita?
E certo. Perché credo che se non si è innamorati della vita non ci si può innamorare degli altri. Anche un grande amore – se si ha la fortuna di incontrarlo – avviene o lo si incontra solo se si è aperti, se si ama la vita. Perché amando la vita, lei ci stupisce dandoci gioie immense.
In generale si avverte nella società attuale un senso di chiusura. Ognuno vive per sé i suoi dolori. Questo modo egoistico secondo te crea una barriera invalicabile tra gli esseri umani?
Si è perso totalmente il senso di comunità. In Sono tornato per te mi riferisco non solo alla vita che si viveva negli anni Trenta o Quaranta, ma anche alla vita che si vive ancora oggi in un piccolo borgo dove questo senso di comunità un po’ continua ad esistere, pur rendendomi conto di tutti i limiti che una simile realtà crea a chi ci vive. Però la comunità è quella cosa che ci unisce agli altri, che ci fa sentire parte di un gruppo di individui e che possono aiutarsi a vicenda. Io sono in grande conflitto con la città anche per questo, perché manca ormai il senso di comunità.
Ma Napoli è una città inclusiva? Oppure no?
Diciamo che Napoli è una città nella quale ancora un poco sopravvive il senso della solidarietà tra le persone. Difatti, ne La tentazione di essere felici racconto la storia di Cesare, questo vecchietto vicino di casa che si accorge della difficoltà che vive la sua giovane vicina e cerca di aiutarla in qualche modo. Per questo ribadisco sempre che è l’essere umano che salva l’essere umano, e che la comunità è l’unico modo che può aiutare la società che invece vive sempre più isolata, con famiglie disfunzionali che sono poi la causa di tutte le tragedie che sentiamo.
Se tu dovessi dare un consiglio ad un giovane di oggi cosa gli diresti? A parte di aprirsi verso gli altri?
I giovani grazie al cielo sono per loro natura aperti. A vent’anni i ragazzi sono aperti alla vita, agli altri. Ecco, forse il consiglio che darei ad un giovane, da quasi cinquantenne, sarebbe quello di custodire e proteggere la propria identità, mettersi in ascolto di sé, capire cosa si è veramente, scoprire le proprie passioni, e soprattutto cercare di non omologarsi.
Oggi i giovani secondo te tendono a volersi omologare?
Penso proprio di sì. Spesso i giovani pur di farsi accettare e piacere agli amici del gruppo assumono atteggiamenti che non appartengono loro. Ed è un danno gravissimo perché in questo modo perdono la loro vera identità. Intravedo già questo atteggiamento in mio figlio che ha appena otto anni. Quindi consiglierei ai ragazzi di essere attenti all’ascolto del proprio sé, e di non trasformarsi per essere accettati. Essere accettati è giusto, ma cambiare se stessi significherebbe condurli lontano da loro e far loro dimenticare, crescendo, quella che è la vera essenza, diventando un qualcosa di costruito pur di essere dentro una scatola che altrimenti non li conterrebbe. Questo è un pericolo reale secondo me. Cercare il miglior equilibrio, cercare di stare nel gruppo, certamente stare con le persone, amare ed essere amati, ma mantenendo sempre però una propria identità, una propria individualità ed il proprio modo di pensare.
Tra i personaggi dei tuoi romanzi Cesare Nunziata ha sicuramente un posto speciale nel tuo cuore. Ma Libero e Andrea Scotto di Tutto sarà perfetto?
Beh anche Tutto sarà perfetto è un libro che amo molto. Lì per la prima volta mi allontano da Napoli anche se non molto…
È in parte ambientato a Procida no?
Sì, in quella storia c’è la volontà di far vedere al lettore qualcosa di diverso, anche se questo già lo avevo fatto con il personaggio di Luce in Magari domani resto, dove ci sono dei continui flash-back. In realtà la volontà iniziale di Tutto sarà perfetto era quella di farne il mio libro più comico. L’inizio infatti è davvero divertente. Poi la volontà successiva era quella di raccontare il dramma del fine vita e soprattutto quello che vive la mia generazione dei quarantenni-cinquantenni: essere cresciuti troppo in fretta diventando padri, oltre che dei nostri figli, anche dei nostri genitori in brevissimo tempo. Penso che la mia sia l’unica generazione, l’ultima, che ha ristretto il proprio tempo di vita proprio per questo motivo. È quello che racconto in Tutto sarà perfetto quando Andrea prende coscienza di questo aspetto.
Tu hai solo un figlio?
Sì solo uno e piccolino.
Continui però a dire che hai cinquant’anni, ma in realtà ne hai appena compiuti quarantanove…
E già!
E allora perché continui a dire che ne hai già cinquanta?
Perché ho scritto un monologo sui cinquant’anni che mi porterà a Teatro a marzo. Questo ti può far capire come la sto vivendo questa età!
In questo monologo cosa racconti?
Diciamo che è iniziato tutto come uno scherzo: ho buttato giù dei pensieri sui cinquantenni, su cos’è la nostra generazione, quella dei miei genitori e poi è nato un testo che ha anche una sua lunghezza e successivamente è arrivato un invito. Faremo uno spettacolo al Teatro San Carluccio di Napoli il 9 e il 10 marzo e poi abbiamo anche un altro paio di date e vedremo cosa ne verrà fuori. Sarò in scena insieme ad un mio amico che mi accompagnerà al clarinetto. Lo spettacolo si intitola Monologo semiserio di un cinquantenne impreparato.
Perché impreparato? Come si può essere impreparati ai cinquant’anni?
Ma io sono impreparato alla vita sai! E più in generale la mia generazione è impreparata. Cerco di raccontare tutto questo.
Ho visto nel carcere di Rebibbia una rappresentazione recitata da detenuti attori ed ho intervistato la regista e drammaturga che mi ha parlato dei bambini che vivono in carcere con le mamme. Questo fatto mi ha riportato alla mente il tuo romanzo Le mamme non dormono mai. Qual è stata l’idea che l’ha fatto nascere?
Il mio sentire è sempre stato quello di raccontare la storia degli ultimi, dei deboli, degli emarginati, perché per natura ed educazione il mio sguardo si è sempre posato su queste persone e non sui vincenti, parola che detesto e che non esiste per me. Tutto è nato da una chiacchierata che feci con Paolo Siani, con il quale siamo amici e che è il fratello di Giancarlo Siani, ucciso dalla camorra. Lui era anche un deputato del PD e firmatario della Proposta di Legge che avrebbe voluto abolire gli ICAM (Istituto a Custodia Attenuata per detenute Madri) sostituendoli con delle case famiglia, dove i bambini avrebbero avuto modo di vivere una vita un pochino più regolare e non certamente come quella all’interno di un carcere detentivo.
Fino a quanti anni questi bambini vivono in carcere con le madri?
Credo fino ai sei anni. Io non conoscevo la storia di questi bambini reclusi di due o tre anni e fui molto incuriosito e stupito e volli andare a fondo. Tra l’altro era anche il periodo della pandemia e dopo una visita al Lauro mi venne voglia di raccontare questa storia incredibile e poco conosciuta. Mentre scrivevo, mi venne voglia di ampliarla con una riflessione sulla libertà, che è all’origine di ognuno di noi; e di farlo attraverso dei personaggi che non sono in detenzione, ma che lavorano negli ICAM e che hanno per così dire una vita libera.
Sono storie davvero molto tristi.
È così. Però avevo la necessità di raccontare questa realtà della mia terra che, ahimè! vanta la peggiore dispersione scolastica in Europa. La periferia di Napoli, ma è un discorso che vale per le periferie di ogni città, i cosiddetti quartieri ghetto: questi posti non hanno nulla. Sono dei rioni desertificati dove i bambini crescono senza modelli, senza esempi, senza genitori, senza scuola e dove si nasce già prigionieri, dentro una gabbia, dove l’unica strada percorribile è quella del male. Anche il finale del libro serve a rivelare che a farcela è uno su mille, e non per un caso, ma solo perché questo uno su mille ha avuto la fortuna di poter incontrare sulla sua strada un essere umano illuminato, un insegnante, un allenatore, – se hanno la possibilità di praticare uno sport, in un campetto di calcio o in una palestra -, oppure un parroco. Il principale problema di tutto questo è la totale assenza di una politica di vera assistenza sociale. I bambini non si possono salvare da soli. La morte di Diego sta a significare precisamente questo.
Lorenzo ho un altro paio di domande e poi ti lascio. Mi dici un tuo sogno?
Un mio sogno?
Sì
Uno dei miei ultimi sogni come desiderio?
Certamente, intendevo come desiderio da realizzare. Però se vuoi puoi anche raccontarmi un tuo sogno ricorrente o che ti ha sorpreso.
Non ho un sogno ricorrente. Io cerco continuamente di ricordare i sogni perché sono da molto in psicoterapia e quindi sono abituato a tenere a mente i sogni che faccio e che spesso racconto e sono utili ad interpretare quello che è il nostro inconscio. Per i desideri: sai, mi sembra riduttivo dire che non ne ho, ma devo dirti che mi sento in un periodo della mia vita nel quale non saprei dirti qual è un mio sogno, un mio desiderio, e comprendo che questo potrebbe sembrare strano, ma invece ritengo sia qualcosa di veramente speciale. Perché significa che in questo momento non avverto la necessità di dover rincorrere nulla e siccome la nostra vita è sempre un continuo rincorrere e provare a raggiungere un obiettivo, il fatto che io non avverta questa esigenza è veramente bellissimo. Tutta la nostra vita ruota intorno al nostro desiderio di arrivare ad un obiettivo per poi subito dopo individuarne un altro. Il fatto che io non senta questa esigenza, che poi fa parte di ogni essere umano, la trovo veramente speciale.
Quindi sei un uomo senza desideri?
Diciamo che non desidero nulla di materiale. Desidererei la Pace. Per me, per la mia famiglia, per i miei cari, vorrei – senza scadere nella banalità – vivere in un mondo più giusto. Vorrei non dover vedere queste derive umane, ma sono discorsi inutili. Invece per quello che riguarda la mia vita personale, mi ritengo e mi sento un privilegiato. Vivo scrivendo storie, posso fare il padre a tempo pieno e non credo di dover pretendere altro. Il mio terapeuta mi ripete sempre una cosa giustissima, che secondo me dovremmo ripeterci tutti come un mantra: il mondo è pieno di ingiustizie e spesso noi cadiamo nell’autocompiacimento, nell’autocommiserazione e sembra che ogni cosa sia contro di noi e che congiuri per non farci raggiungere un obiettivo. Il mondo purtroppo è pieno di ingiustizie e secondo me la più alta forma di fede che possiamo manifestare nonostante tutto, e lo dico da laico, è la gratitudine.
La gratitudine?
Sì. Alla gratitudine non si arriva se prima non si raggiunge la riappacificazione con quello che si è, con quello che hai, con quello che è intorno a te. Io mi auguro di continuare a evolvermi e migliorare, diventando sempre più saggio come diceva Battiato, che tra l’altro sull’evoluzione e la spiritualità ci ha costruito una vita.
Ti definisci laico?
Si anche se tutti i miei romanzi sono sempre una ricerca di Dio. Hanno tutti sempre delle domande incompiute, che sono forse quasi delle preghiere. Io sono alla ricerca di una spiritualità. Il mio libro La donna degli alberi per esempio è il più rappresentativo e racconta proprio questa mia ricerca spirituale laica. È fra i miei più belli, almeno secondo me, ma è stato anche quello che ha creato molte divisioni. È un romanzo complicato. Però anche in Sono tornato per te c’è tanta ricerca, tanta voglia di porsi delle domande, tanta spiritualità. La frase che Serenella dice a Cono: “Nessuno è ateo in trincea”, è una grandissima verità. Se si è consapevoli e connessi con se stessi, si è in evoluzione e si arriva ad una certa età al di là di tutto ciò si è stati prima, iniziando una ricerca spirituale personale. Io credo di essere in questa fase. Personalmente mi definisco ateo, ma in realtà sono pieno di dubbi, perché poi alzo gli occhi, guardo il cielo e penso che ateo mi sembra davvero una parola troppo forte.
Forse c’è molto di più di quello che noi riusciamo a vedere?
È così. Credo proprio che sia così.
L’ultima domanda che vorrei farti è questa: hai delle cose materiali alle quali non rinunceresti mai?
I libri sicuramente.
Di che autore in particolare?
Beh Primo Levi mi piace tantissimo.
E a quale libro di quale autore non rinunceresti mai?
È una domanda impossibile. Ieri ero in una trasmissione che andrà in onda sulla RAI ed ho parlato di On the road di Jack Kerouac. In realtà io davvero non riesco a dire un titolo di un libro che preferisco. Forse potrei fare il nome di un autore che considero per me inarrivabile: Philip Roth. Però i libri fondamentali nella mia vita sono stati talmente tanti che non riesco a sceglierne uno. I libri, come oggetto materiale, sono una cosa fondamentale, perché contengono storie ed io come scrittore vivo di storie perennemente. Io poi sono anche un animista e cerco di vedere la vita nelle cose cosiddette inanimate. Sono un collezionista che si affeziona alle cose, ho amore anche per gli oggetti. Come vedi qui c’è la mia libreria abbastanza grande, più di cinque metri…
È davvero bellissima.
Non ci sono solo libri, ma anche tanti oggetti, un sacco di cose che mi riportano a tanti ricordi, la memoria della vita vissuta. Ora che in questa società è tutto minimal, io conservo ancora cd, vinili, dvd che sono ormai dei reperti archeologici ma che stanno lì perché rappresentano ciò che ho amato.
Se dovessi partire di corsa per un viaggio cosa ti porteresti?
I farmaci! Perché io sono anche un po’ ipocondriaco. Non riesco a partire senza farmaci. Devo dire la verità. Io ho scritto anche un libro sulla mia ipocondria, Inventario di un cuore in allarme.
Ma sei guarito ora dall’ipocondria?
Non si guarisce mai, però diciamo che sono migliorato perché sono in una fase di apertura della mia vita. Dall’ipocondria non si guarisce mai perché è anche un fatto di come si sta al mondo, di sensibilità, di assorbire il dolore degli altri e quindi non si può guarire definitivamente da questo, a meno che non si diventi insensibili a tutto. Non essendo io un insensibile, debbo cercare solo di conviverci.
Però non credi che sia bello essere delle persone così sensibili da fare propri i dolori degli altri?
Sì, decisamente. Solo così si possono scrivere dei romanzi.
