di Maurizio Fantoni Minnella
- Il tempo, forse, ci aiuterà finalmente a comprendere la divaricazione creatasi tra la figura dell’intellettuale e quella del professore ordinario di qualsivoglia università, come del resto la differenza sostanziale tra guerra e rivoluzione. Partiamo da quest’ultima: l’aver definito l’attuale conflitto nella Striscia di Gaza generato dall’attacco di Hamas del 7 ottobre come una guerra, oltre che miope, risuona come falso e demagogico. Tale esempio, tuttavia, ci consente di comprenderne l’uso strumentale da parte del governo di Israele, dal momento che sappiamo quanto la parola guerra contenga una valenza di legittimazione di stato e in questo caso di autolegittimazione a procedere nell’azione militare trasformatasi in un vero e proprio genocidio. Ma sappiamo anche quanto la parola “genocidio” sia esclusivamente riservata alle vittime storiche di quello che fu il più grande crimine della storia umana, ossia al popolo ebraico. Quindi risulta davvero difficile se non impossibile l’ammissione da parte del mondo occidentale (che ancora soffrirebbe di un profondo senso di colpa) che a commettere un nuovo genocidio siano proprio coloro che più di ogni altro ne furono vittime. Si tratta, tuttavia, di un ragionamento ingenuo e per certi versi strumentale al consolidamento del proprio ruolo di vittima, a cui il popolo d’Israele sembra essere destinato quasi per diritto divino. Per quello stesso diritto, Israele procede indisturbata e impunita nel processo di annessione di territori palestinesi in Cisgiordania, compromettendo definitivamente ogni possibile ipotesi di creazione di due stati per due popoli, rendendo altresì remota l’altra ipotesi di uno stato per due popoli, sostenuta dallo storico di origine ebraica Ilan Pappè. L’attuale tragedia di Gaza, infatti, è paradossalmente, non una guerra come viene descritta dai media di mezzo mondo, ma una rappresaglia infinita da parte di un esercito, quello israeliano, sul modello di quelle naziste (dieci italiani per un tedesco morto). Da qui il numero impressionante di vittime palestinesi innocenti, peraltro destinato ad aumentare ogni giorno. Per la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica, si tratta, invece, di una guerra cruenta contro un nemico quasi invisibile, laddove però un solo esercito ben equipaggiato dall’Occidente agisce ovunque indiscriminatamente, perfino in territori di altri Stati (come Siria, Iran e Libano, avendo come bersaglio costante “i soliti nemici d’Israele”), colpendo perlopiù innocenti e inermi, e senza trovare alcuna resistenza. Infine, di questa profonda e drammatica asimmetria, per ignoranza o per strategia politica, nessuno parla, quasi che le ragioni del più forte diventino verità acquisita e assoluta!…Leggiamo inoltre non senza sgomento, nelle parole di autoassoluzione rispetto alle accuse di genocidio (alle cui voci ancora purtroppo minoritarie, rappresentate da circa trenta paesi, ora si è aggiunta quella dello stato indonesiano che porterà Israele davanti alla Corte Internazionale di Giustizia per la sua occupazione illegale della Palestina) stilate di recente dall’UCEI (Unione Comunità Ebraica Italiana) in occasione della Giornata della Memoria. Si tratta di un vero e proprio documento in 12 punti il cui intento è quello di dimostrare che per gli ebrei sionisti, in fondo, non esistano altre vittime al di fuori di loro stessi, come in una sorta di cristallizzazione della Storia.
- Se il professore universitario ha come missione ultima quella di formare la conoscenza, l’intellettuale è chiamato ad un altro non meno arduo compito, quello di formare e far crescere la coscienza del nostro essere uomini nella società contemporanea con la quale ci relazioniamo ogni giorno, anche soltanto attraverso l’informazione. Ma mentre al primo, forte della propria autorità accademica, è consentito tutto o quasi tutto, il secondo, invece, quando non è vacuamente appiattito sulle logiche del potere e dei suoi privilegi, viene abitualmente considerato un soggetto pericoloso (per Stati come quello israeliano la cui carenza di democrazia si misura da diversi fattori storici e politici e in altri ancora più autoritari), se non addirittura inutile, come nelle cosiddette società libere in cui il processo avanzato di globalizzazione non ammette più una figura di mediazione critica del proprio tempo quale era appunto per definizione la figura dell’intellettuale. Infatti, coloro che hanno il coraggio di esprimersi criticamente nei confronti della politica israeliana, si ritrovano facilmente sotto ricatto con l’accusa di antisemitismo e quindi in una lunga lista nera in cui si trovava anche il compianto attivista per i diritti dei palestinesi Vittorio Arrigoni, come ai tempi del maccartismo americano. Consola il fatto che proprio il Sudafrica post-apartheid abbia assunto una posizione netta contro la politica israeliana dell’attuale primo ministro, a questo punto definibile come terrorista, non meno di quanto non lo sia Hamas. Uno stato, quello africano, che aveva conosciuto la segregazione razziale e che forse proprio per questo nel riconoscere la nuova (e insieme vecchia) segregazione palestinese, vi ha opposto la propria sacrosanta indignazione. Che ne siano capaci tutti gli altri, nessuno escluso, fino ad oggi prigionieri della propria sudditanza atlantista e dell’immancabile pregiudizio islamofobo e arabofobo! Che la loro indignazione non sia rivolta soltanto alle immagini della propaganda sionista o a quelle reali della ferocia dei miliziani di Hamas (culmine parossistico di una catena di infamie subite da un intero popolo ma, lo ribadiamo, non per questo in alcun modo giustificabile), ma anche ai soprusi quotidiani, agli assassinii indiscriminati, alle vessazioni, allo stupro morale, che da oltre settant’anni infangano e umiliano la bella terra di Palestina.
