di Luca Giammarco –
Nel vasto mondo dei disturbi neurologici che riguardano il linguaggio, la disnomia rappresenta una sfida complessa e intrigante, anche se spesso sottovalutata. Questo disturbo, noto anche come “anomia” o “afasia nominale”, si manifesta come la difficoltà a richiamare nomi di persone, oggetti o concetti, pur conservando intatte altre funzioni cognitive e linguistiche. La persona affetta da disnomia sa perfettamente cosa vuole dire, ma fatica a trovare la parola giusta per esprimerlo.
La disnomia è un fenomeno che affonda le sue radici nei meccanismi di archiviazione e recupero delle informazioni nel cervello. Essa colpisce la capacità di accesso ai nomi immagazzinati, piuttosto che la comprensione o la produzione del linguaggio in sé. Dal punto di vista neurologico, la disnomia è spesso associata a lesioni o disfunzioni nelle aree del cervello coinvolte nell’elaborazione del linguaggio, come l’area di Broca e l’area di Wernicke, che sono collegate da una complessa rete di vie nervose. Studi di neuroimmagine hanno dimostrato che danni alla giunzione temporo-parietale dell’emisfero sinistro possono compromettere questa funzione specifica.
Questa condizione può essere di varia entità e spesso è legata a disturbi più ampi come l’afasia, una condizione in cui la capacità linguistica complessiva risulta alterata a causa di danni cerebrali, frequentemente provocati da ictus o traumi cranici. Tuttavia, la disnomia può manifestarsi anche in individui altrimenti sani, come nel caso della cosiddetta “disnomia evolutiva”, che si osserva in alcuni bambini con difficoltà linguistiche selettive.
Immaginiamo un individuo che, volendo descrivere un oggetto comune come una “forchetta”, non riesca a ricordarne il nome. Al suo posto, potrebbe usare una perifrasi come “quella cosa per mangiare” o “lo strumento con i denti”. L’oggetto è perfettamente riconosciuto, ma il nome non arriva alla mente. In altri casi, il soggetto potrebbe cercare di pronunciare il nome corretto, ma trovarsi a dire una parola simile o errata, come “cucchiaio” invece di “forchetta”. Questa difficoltà si osserva anche nel richiamare nomi propri: la persona potrebbe ricordare dettagli precisi di una persona, come l’aspetto fisico o il lavoro, senza però riuscire a ricordarne il nome.
Le prime descrizioni cliniche della disnomia risalgono alla fine del XIX secolo, in particolare grazie agli studi di Carl Wernicke e Paul Broca, pionieri nell’osservazione dei disturbi del linguaggio. Questi neurologi tedeschi, studiando pazienti con lesioni cerebrali, identificarono precise aree del cervello coinvolte nella produzione e nella comprensione del linguaggio, ponendo le basi per la moderna neuropsicologia.
Tuttavia, fu solo nel XX secolo, grazie all’introduzione di tecniche di neuroimmagine come la risonanza magnetica funzionale (fMRI), che fu possibile mappare con maggiore precisione le aree del cervello coinvolte nei processi di nominazione e recupero lessicale. Questi studi hanno permesso di comprendere meglio non solo i disturbi del linguaggio, ma anche come il cervello organizza e gestisce la memoria semantica e lessicale.
Diagnosticare la disnomia può richiedere test neuropsicologici specifici. I pazienti vengono spesso sottoposti a esami di nominazione e categorizzazione, in cui viene chiesto loro di identificare e nominare oggetti o immagini. Tuttavia, la diagnosi differenziale è cruciale, poiché la disnomia può sovrapporsi ad altre forme di afasia.
Per quanto riguarda i trattamenti, non esiste una cura universale per la disnomia, ma terapie logopediche mirate possono aiutare i pazienti a migliorare la capacità di recupero dei nomi. Tecniche di compensazione, come l’uso di sinonimi o di descrizioni per superare i momenti di vuoto verbale, possono rivelarsi utili per molti pazienti. In alcuni casi, il miglioramento può avvenire in maniera spontanea, soprattutto se il disturbo è il risultato di un trauma recente.
La disnomia è comune anche negli individui anziani e può rappresentare uno dei primi segnali di un declino cognitivo associato all’invecchiamento o a malattie neurodegenerative come l’Alzheimer. Tuttavia, è importante distinguere tra i normali “vuoti di memoria”, che aumentano con l’età, e i sintomi di disnomia patologica che interferiscono significativamente con la vita quotidiana. In quest’ultimo caso, un intervento precoce può essere determinante per rallentare la progressione dei sintomi.
La disnomia, pur essendo un disturbo specifico e circoscritto, offre una finestra unica sulla complessità del cervello umano e sui delicati meccanismi che regolano il linguaggio. Comprendere meglio questo fenomeno può non solo aiutare chi ne soffre, ma anche illuminare aspetti fondamentali della neurobiologia del linguaggio e della memoria. I continui progressi nelle neuroscienze e nelle terapie cognitive promettono di fornire nuovi strumenti per affrontare questo disturbo, migliorando la qualità della vita di chi è affetto da disnomia.
