Maurizio Fantoni Minnella –
Premessa
S’intensifica il dibattito su l’intellettuale come figura chiave, ovvero di mediazione tra creazione artistica e ricezione, nella cultura del XX secolo. Ci si interroga da più parti sul suo destino nella società globale e la domanda è sempre la stessa: a che cosa servono, oggi, gli intellettuali?
E’ interessante, a questo punto, notare come il cinema, in particolare quello italiano e quello francese, con grande anticipo sul dibattito attuale e con sensibilità diverse abbia sforato tale questione attraverso l’invenzione narrativa di personaggi, descritti, talvolta, con rara acutezza, che rappresentano vizi e virtù dell’intellettuale come critico e del critico come intellettuale. Una risposta potrebbe essere questa: nella società globale e digitale incombe la volontà di sradicare lo spirito critico, incarnato dal ruolo dell’intellettuale, di vanificarne la funzione e, dunque, screditarne il prestigio, oppure trasformarlo in una succube cassa di risonanza priva di idee del potere politico ed economico dominante.
- L’intellettuale all’inferno secondo Federico Fellini
E’ noto che Fellini, per varie ragioni, non amasse i critici, eppure nel finale di Otto e mezzo, 1962, attribuiva alla figura di un critico venuto “sul campo” a constatare il naufragio di un film che non verrà più realizzato, uno dei monologhi più struggenti del cinema italiano. Eccolo:
Lei ha fatto benissimo, mi creda, oggi è una buona giornata per lei. Sono delle decisioni che costano, lo so, ma noi intellettuali, dico noi perché la considero tale, abbiamo il dovere di rimanere lucidi fino alla fine. Ci sono già troppe cose superflue al mondo, non è il caso di aggiungere altro disordine al disordine».
«distruggere è meglio che creare quando non si creano le poche cose necessarie. E poi, c’è qualcosa di così chiaro e giusto al mondo che abbia il diritto di vivere? […] Meglio lasciar andare giù tutto e far spargere sale come facevano gli antichi per purificare i campi di battaglia. In fondo avremmo solo bisogno di un po’ di igiene, di pulizia, di disinfettare. Siamo soffocati dalle parole, dalle immagini, dai suoni che non hanno ragione di vita, che vengono dal vuoto e vanno verso il vuoto. A un artista, veramente degno di questo nome, non bisognerebbe chiedere che quest’atto di lealtà: educarsi al silenzio».
Noi critici facciamo quello che possiamo. La nostra vera missione è spazzare via le migliaia di aborti che ogni giorno, oscenamente, tentano di venire al mondo. E lei vorrebbe addirittura lasciare dietro di sé un intero film, come lo sciancato si lascia dietro la sua impronta deforme? Che mostruosa presunzione credere che gli altri si gioverebbero dello squallido catalogo dei suoi errori. E a lei che cosa importa cucire insieme i brandelli della sua vita, i suoi vaghi ricordi, o i volti delle persone che non ha saputo amare mai?».
Il regista riminese non sarà mai più così felice nel rappresentare ciò che maggiormente detestava, avendo scelto piuttosto mondi che nascevano direttamente dai suoi ricordi, dai suoi disegni e dai suoi sogni, talvolta caricature di umanità così perfette da poter nascondere dietro il sorriso la vera essenza dell’uomo.
- L’intellettuale all’inferno secondo Pier Paolo Pasolini
Il poeta, lo scrittore, il regista Pasolini per mettere in scena la figura di un intellettuale avrebbe dovuto necessariamente mettere in gioco se stesso sullo schermo. Non a caso, Infatti, in Uccellacci e uccellini, 1964, egli attribuiva a un corvo, ad un pennuto vagante, il ruolo di “guida” parlante intrisa di umori ideologici marxisti, nel lungo viaggio di due guitti nelle lontane periferie romane, tuttavia volle fare un eccezione: in La ricotta, 1963, dove si ricostruisce in maniera blasfema (per i moralisti d’accatto e i censori di stato!), la passione di Cristo laddove il Cristo è rappresentato da un povero cristo così morto di fame da ingozzarsi di ricotta, assistiamo al monologo finale del regista, interpretato da un regista vero, il grande Orson Welles, alter ego di Pier Paolo Pasolini del quale legge alcuni versi tratti da Le ceneri di Gramsci, 1957:
Io sono una forza del Passato / solo nella tradizione è il mio amore /vengo dai ruderi, dalle Chiese, / dalle pale d’altare, dai borghi, /dimenticati sugli Appennini o sulle Prealpi, /dove sono vissuti i fratelli./ Giro per la Tuscolana come un pazzo, /per l’Appia come un cane senza padrone. / O guardo i crepuscoli, le mattine /su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo /come i primi atti del Dopostoria, / cui io assisto come privilegio di anagrafe, /sull’orlo estremo di qualche età /sepolta. Mostruoso chi è nato/ dalle viscere di una donna morta. / E io, feto adulto, mi aggiro /più moderno di ogni moderno /a cercare fratelli che non sono più.
Ma è nel confronto con un giornalista insignificante venuto a intervistarlo che emerge prepotentemente lo sdegno del poeta per la mediocrità e la miseria della borghesia italiana e al tempo stesso il suo profondo disincanto, in altre parole il proprio ruolo di moderno moralista critico delle derive della modernità. L’uomo medio è un mostro e la borghesia italiana la peggiore d’Europa, sembra volerci ammonire il poeta con la propria invettiva, attraverso lo sguardo penetrante e altero di un regista barocco: la politica genera mostri a loro volta generati dalle masse ormai omologate.
III. L’intellettuale all’inferno secondo Bernardo Bertolucci
In Prima della rivoluzione, 1966, opera seconda del regista parmigiano dopo La commare secca, 1965, ma primo vero film di Bertolucci come si è ancora soliti affermare, vi è un doppio dilemma; l’impegno sentimentale o la militanza nel partito (comunista)? La politica o il cinema?. In questo racconto di formazione sullo sfondo della pianura padana e la Parma di Attilio e del Teatro Regio, si muovono il giovane intellettuale comunista che scopre tardi quanto fosse dolce la vita “prima della rivoluzione” e il cinephile ossessivo che non può vivere senza Rossellini!…
Nel più recente The dreamers-I sognatori, 2003, ritroviamo ancora una volta le figure di giovani intellettuali cinephiles che vivono vedendo e citando pellicole d’autore come i borghesi dell’opera prima di Marco Tullio Giordana omaggiano autori, quasi che il cinema diventi più vero della vita stessa e dell’intellettuale ufficiale, il professore, l’autorità paterna che, sullo sfondo, invece, delle barricate del Maggio francese parigino, sembra poco intenzionato a gettarsi nella mischia. Devi capire, dice al figlio, che della società che vorresti abbattere fai parte anche tu. Il padre che un tempo aveva scritto: Una petizione è una poesia e una poesia è una petizione, diventa di retroguardia rispetto alle posizioni d’avanguardia di una nuova classe politica giovanile che nell’andare all’”assalto al cielo”, finì per ripiombare a terra con esiti disastrosi.
- L’intellettuale all’inferno nel cinema di Ettore Scola
- Da fervente comunista e scrupoloso lettore di Gramsci, il regista Ettore Scola (1931-2016) mette in scena in almeno due delle molte e fortunate opere da lui realizzate la figura dell’intellettuale italiano secondo una prospettiva nazional-popolare: una questione di coerenza che il regista persegue film dopo film. Vi è infatti una frase tratta da La terrazza, 1980. che chiarisce tutto: non confondere ciò che è volgare con ciò che, invece, è popolare e in ogni sua opera sembra mantenere fede a tale principio.
Chi è realmente l’intellettuale secondo Scola, più d’una volta presente con il volto e la fisicità di Stefano Satta Flores (1937-1985)? Innanzitutto un intellettuale engagè, di quella sinistra extraparlamentare estranea alle logiche del Partito Comunista Italiano. Per questa ragione, forse, più esposto alle critiche di chi si sentiva solidamente all’interno di una struttura-partito dai forti dettami in materia di cultura e di rappresentazione di essa attraverso, lo spettacolo-cinema. Egli è, infatti, una figura segnata da una sorta di fragilità naturale. Nel sopracitato La terrazza è un intellettuale da salotto alto borghese su di una ricca e sontuosa terrazza, tra funzionari televisivi, giornalisti, registi di commedie, scrittori, sceneggiatori, pubblicitari etc., la cosiddetta classe intellettuale italiana, oggi grandemente sotto attacco come “classe morta” (per citare il grande drammaturgo polacco Tadeusz Kantor), fluida e ruffiana, compiacente e arrabbiata, ma sempre pronta a mettersi a disposizione del sistema-cultura più prossimo al mercato. Tra essi, però, c’è un altro personaggio, un’anomalia del sistema, ovvero l’intellettuale di partito, comunista, s’intende, che ad un certo momento del film pronuncia questa frase: io vi odio perché voi siete il mio specchio. La tentazione salottiera dell’onorevole comunista che vorrebbe servire Dio e Mammona senza riuscirvi in entrambi i casi. Ma facciamo un passo indietro, alla sequenza in cui il nostro intellettuale si prodiga in una discussione incalzante con l’amico sceneggiatore, accusandolo di scrivere ritratti senza problematica, d’evasione, insomma, ottenendo dall’altro la seguente risposta: ma io non ho mai voluto fare ritratti problematici. A sua volta lo sceneggiatore, anch’egli un intellettuale, è condannato dal suo produttore, a far ridere ad ogni costo. Vi è poi un’altra figura, sia pur secondaria, di intellettuale, quella di un funzionario culturale della Rai che un tempo fu anche poeta, vincitore di un importante premio letterario, costretto, suo malgrado, a sottostare al dominio della mediocrità dominante nella televisione di stato, fatto questo che lo condurrà al suicidio. E’ una catena che ad un estremo pone l’ideologia, dall’altro il mercato, ovvero l’arte di piacere al pubblico che per Scola è esercizio, o se si vuole, vocazione utile e necessaria, purchè non scada nel corrivo, ossia nel basso prodotto che non è l’equivalenza di basso pubblico, perché a suo dire, non esisterebbe un pubblico alto o basso ma semplicemente il pubblico con la P maiuscola. Scola racchiude in quella sequenza l’ossessione intellettuale per l’impegno hic et nunc senza il quale non ci sarebbe né prospettiva né futuro per l’intellettuale stesso. In un’altra sequenza, diremo, familiare, ritroviamo lo stesso personaggio intento a sostituire insieme ad un amico il menabò di una nuova rivista cinematografica. Che cosa accade, però, all’intellettuale al lavoro allorchè egli viene a conoscenza del fatto che la vecchia madre è rimasta incinta? In questo passaggio Scola pone il nostro di fronte ad una contraddizione insanabile, tra il radicalismo critico e politico ostentato e la vergogna espressa di fronte ad un fatto naturale e privato. Il puritanesimo, che di solito veniva attribuito alla sinistra del Pci, si trasferisce in un personaggio che, al contrario, dovrebbe incarnare il libertarismo. Scola, con evidenza, si diverte invertendo i ruoli che furono di una sinistra che sembra ormai lontana nel tempo. In C’eravamo tanto amati, 1974 il regista di Trevico fornisce un ritratto quanto mai efficace di un fallimento che non è soltanto dell’intellettuale, ancora una volta interpretato da Stefano Satta Flores, ma di un’intera società che, uscita dal disastro della seconda guerra mondiale e dal fascismo, “dalla parte del giusto”, sognava una società radicalmente diversa rispetto alla precedente, fondata sulla libertà e sulla giustizia sociale. Saranno i Gianni Perego a creare una società più giusta, pronuncia con enfasi ottimistica uno dei quattro amici e “compagni”, riferendosi ad uno di essi, aspirante avvocato, durante il loro primo incontro dopo la Liberazione. Dei quattro, tre uomini e una donna, è quella dell’intellettuale la figura più tragica ma anche la più sfaccettata. Difficile se non impossibile ricordarne un’altra in grado di eguagliarne l’afflato “militante” ed entusiasta e successivamente la caduta, fragorosa, s’intende, come si conviene ad un eroe sconfitto, ad un perdente della storia, l’intellettuale, appunto, non colui che, alla piaggeria verso i potenti, ha preferito l’assoluta coerenza di idee e azioni. Ed è proprio verso tale coerenza che si potrebbe tradurre con il dogma dell’idea o della purezza culturale e ideologica, che il regista Scola con i suoi sceneggiatori affina i suoi strali benevoli, non nascondendo una certa pietas verso il suo personaggio, colto in tre fasi esistenziali: la prima, ambientata in una cittadina di provincia campana, che vede lo scontro tra l’integerrimo intellettuale cinephile, strenuamente deciso a difendere fino alle lacrime e al proprio licenziamento dall’insegnamento, il capolavoro di De Sica Ladri di biciclette, 1948 e una pletora di mediocri notabili, accaniti difensori della morale democristiano-andreottiana (“i panni sporchi si lavano in famiglia”). La seconda, mostra il suo arrivo nella città eterna, la città del cinema, più adatta a un critico che la vuota provincia, accompagnato dall’amico infermiere comunista, in cerca di fortuna. Con un’austerità quasi da trappista, egli ha rinunciato a moglie e figlio pur di realizzare il suo scopo. Ma è qui che, subito emerge un’intransigenza intellettuale tipicamente del sud:… Non mi devi dare ragione, l’intellettuale è più oltre, egli più sopra e più sotto… Al regista preme, in fondo, sottolineare l’essenza nel soggetto in questione, di quella dialettica capace di definire la misura della comunicazione con il pubblico, con coloro a cui è destinato un determinato pensiero culturale, sia esso un’opera cinematografica, una critica o una semplice relazione pubblica. In una fase di euforia lo vediamo perfino in azione lungo la scalinata della chiesa della Trinità dei Monti nel tentativo di spiegare ad un’amica aspirante attrice la famosa sequenza della scalinata di Odessa del capolavoro ejsensteiniano La corazzata Potemkin, 1925. L’amico che è con loro non li comprende, e al primo moto d’insofferenza, lui, perentorio, dice: stavamo parlando di cinema!…
La terza fase, pone al centro una riffa, una scommessa che può cambiare il corso delle cose: la partecipazione a un famoso telequiz come esperto di cinema. Il caso vuole che si sorteggi Ladri di biciclette, 1948. Ed è proprio sul film più amato che il critico cinematografico fallisce, più per un difetto di comunicazione che per un vuoto di conoscenza. Qui la visione-lezione critica di Scola si fa serrata nella propria evidenza: egli ha ragione ma al tempo stesso torto. I mediocri del sistema televisivo, non dissimili dai notabili di Nocera Inferiore (inferiore di nome e di fatto!) non si combattono con l’elitismo della speculazione intellettuale (vi è in gioco nella risposta data dal critico, il sovrapporsi dell’attore, il bambino protagonista, al personaggio fittizio), ma con la semplicità e la chiarezza. L’egemonia culturale, nell’accezione gramsciana dei Quaderni dal carcere, 1948-1951, si ottiene, sembra dirci, infine, il regista grande estimatore di Fellini, con il consenso delle masse attraverso la “persuasione razionale e l’influenza sentimentale” come baluardi inevitabili, le cosiddette “case matte”.
- L’intellettuale all’inferno nel cinema di Marco Tullio Giordana
Nel suo primo e troppo frettolosamente dimenticato lungometraggio, Maledetti vi amerò, 1980, Marco Tullio Giordana (1950) fa un primo bilancio degli esuli del ’68, in una Milano, (la sua) in cui la lotta politica e la militanza armata sembrano essere evaporate in una nuvola rossa in una delle molte feritoie della notte come recita un testo struggente di Fabrizio De Andrè (1940-1999). Niente è più lontano da quelle atmosfere sapientemente descritte da un autore appena trentenne dal rumore delle barricate. E’ infatti, una ritrovata Milano borghese (la sua) dove si aggira con una vecchia bicicletta un transfugo del ’68, di ritorno dall’America Latina, un “lumpen proletario”, come si era soliti dire una volta, alla ricerca di una nuova esistenza, imbattendosi, inevitabilmente, nei vecchi compagni di lotta, perlopiù rampolli della classe borghese e alto-borghese. L’altra faccia della Milano “da bere”. E sa coglierli con rara efficacia e ironia in due rituali che rivelano, per un verso, il cupio dissolvi della politica e della cultura, (con un’ovvia citazione pasoliniana), nella lunga sequenza delle “ceneri di Gramsci” (che in realtà diventano le ceneri di Pasolini, barbaramente ucciso a Ostia cinque anni prima), materializzate in polvere bianca (leggi cocaina), disposte su un vassoio d’argento da distribuire a tutti gli invitati ad una festa in una villa padronale che sta per essere venduta ma che il protagonista, provocatoriamente, disperde con un soffio. L’utopia della rivoluzione sostituita dall’estasi della cocaina nel destino della ricca Milano del terzo millennio. Esiste uno strano parallelismo tra i vecchi compagni rivoluzionari immaginari che annusano, simbolicamente, Gramsci trasformando le idee in materia non essendo riusciti a trasformarlo in prassi reale e i due guitti girovaghi pasoliniani (Totò e Ninetto) di Uccellacci e uccellini, 1974, i quali, affamati e stanchi delle chiacchere astratte di un corvo parlante, nel divorarlo, si mangiano, per così dire, l’ideologia che esso rappresenta. Ma qui sta lo spartiacque tra i bisogni reali e i desideri, tema caro al Movimento del ’77: ai proletari la fame atavica, ai borghesi le plaisir pour le plaisir.
Per altro verso, assistiamo, come passatempo dei giovani intellettuali senza rivoluzione, al cosiddetto gioco degli omaggi cinematografici con dovizia di materiale cinephile e di riprese sinuose in super 8. E, dunque: homage a Jean Marie Straub, homage a Billy Wilder, homage a Raffaello Matarazzo e via citando… Dalle barricate del ’68 e del ‘77 si è dunque passati facilmente ai salotti di tante, troppe interminabili stagioni. Milano ne è stata e ne è la culla ideale. Di fronte a tale sfacelo, un solo atto eroico: la morte del protagonista, che si fa uccidere da un poliziotto, ormai diventato un paria nella geografia di una città che non sa più comprendere e da cui non è compreso.
- L’intellettuale all’inferno nel cinema di Francesco Maselli
Da figlio della borghesia, Francesco “Citto” Maselli (1930-2023) non smise mai di descriverne le abitudini sociali, le ossessioni, le speranza e il disincanto. Dopo gli “sbandati”, i “delfini” e gli “indifferenti” (1), ecco, finalmente, i compagni. Della borghesia romana intellettuale e comunista dirà con sapiente lucidità in un’opera fondamentale nel suo cinema: Lettera aperta a un giornale della sera, 1970, dove un gruppo di intellettuali militanti comunisti si trova di fronte al seguente dilemma: partire tutti insieme per il Vietnam in lotta e portare ai vietcong la propria solidarietà politica oppure restarsene a Roma dietro le proprie scrivanie dorate? Dopo un susseguirsi, di confronti, dibattiti, conflitti, in una sorta di scandaglio dell’anima della sinistra intellettuale borghese, nessuno di loro partirà. E infatti dirà Goliarda Sapienza (1924-1996), scrittrice e co-protagonista (che fu anche moglie di Maselli), in un dialogo serrato, ancorchè memorabile, con uno degli intellettuali, che il loro era soltanto un movimento spastico di respirazione… Che farebbe rimpiangere, diremo noi, la partecipazione di molti intellettuali impegnati, come ad esempio, tra gli altri, George Orwell (1903-1950) nella Guerra civile spagnola (1936-1939), a fianco del Fronte Popolare!. Borghesia, dicevamo, che sembra trovare un’altra ideale rappresentazione nella sequenza in cui un gruppo di giovani rivoluzionari è intento ad ascoltare il cantautore Paolo Pietrangeli (1945-2021) che intona “Contessa”, canzone-manifesto condivisa dall’intero Movimento del ’68 e ripresa poi successivamente durante le lotte degli anni settanta, si trasforma in un rituale perfettamente salottiero, sublimato da un unico piano sequenza che si sofferma su intensi primi piani di volti femminili, colpi in una specie di estasi che tutti noi abbiamo conosciuto di fronte ad un pensiero condiviso.
Quella stessa borghesia, invecchiata di quasi mezzo secolo, proverà a raccontare in Le ombre rosse, 2009, l’arroganza intellettuale ma anche le frustrazioni che il nuovo secolo ha portato con sé rovesciandole proprio su coloro che erano vissuti tra le sicurezze offerte dal partito e la seduzione rivoluzionaria. La pretesa di imporre dall’alto, ossia da parte di alcuni intellettuali affermati con tessere di partito in tasca e non, la propria visione della cultura a un gruppo di giovani di un centro sociale della periferia romana, prendendo a modello le cosiddette “case della cultura”, ideate da Andrè Marlaux (1901-1976), scrittore e uomo politico francese tra i più noti del ‘900. Nel ricalcare il medesimo canovaccio di Lettera aperta…, viene riproposta da Maselli la stessa inettitudine, il medesimo velleitarismo di una classe intellettuale che ha smarrito il proprio centro con degli strumenti dialettici e concreti sempre più inadeguati rispetto, ad esempio, alla presenza sempre più stringente del mercato. Architetti con attici di lusso con la foto di Lenin sopra il letto, sindacalisti e studiosi di fama, politici riuniti sotto la stessa bandiera, dopo il monologo-confessione che una dichiarazione di impotenza e forse, anche di ipocrisia dove, alla fine conterà, come sempre, solo il gesto esteriore inteso come simbolo, di uno di essi, dal quale era partita la crociata per la cultura popolare, riuniti come fantasmi nella più grande empasse: la vittoria elettorale delle destre, annunciata da un fragore di clacson!…
VII. L’intellettuale all’inferno nel cinema di Luciano Salce
Nella saga cinematografica nazional-popolare del ragionier Fantozzi, saga di frustrazione, sottomissione, miseria e mediocrità impiegatizia, vi è un episodio ormai divenuto leggendario quello della cosiddetta “Corazzata Kotiomkin” (laddove alla P subentra la K per semplici ragioni di diritti). Quale modo più efficace e persuasivo, allora, per sbarazzarsi della figura odiosa e petulante del critico da parte di un autore, Salce (1922-1989) che al pari di molti suoi colleghi autori di commedie, soffriva dell’allora egemonia del cinema d’autore vezzeggiato e cullato dai critici come il solo patrimonio culturale del paese, che inventare un critico (interpretato da un caratterista genovese), pagato dalla grande fabbrica per educare i dipendenti alla visione del grande cinema muto sovietico, e in particolare al capolavoro di Sergej Ejsenstein (1898-1958)! Nell’elaborazione della sceneggiatura gli autori descrivono una sorta di terrore culturale imposto alle masse popolari, avide di ben altri spettacoli. E’ evidente che dietro la comicità dello spettacolo si muovono i primi passi verso una messa in discussione, in filigrana, della cultura come egemonia e in tale prospettiva la figura del critico diventa figura dispotica e altresì caricaturale. La sua estremizzazione è collegata al destino del singolo, al riscatto da tante umiliazioni subite: Fantozzi, of course! Toccherà a lui, il paria degli impiegati della “mega fabbrica” riscattare anche gli altri, sottoposti ripetutamente alla tortura del “film d’autore”, per di più sovietico, facendo la storica dichiarazione: “la corazzata “kotiomkin” è una cagata pazzesca”, scatenando così l’ira popolare di coloro che per convenienza subivano in silenzio, in una chiave decisamente populista, tanto cara alle destre qualunquiste e piccolo borghesi. La vendetta selvaggia sembra quasi, agli occhi del grande pubblico che guarda estasiato, una sorta di gesto rivoluzionario che comprende non solo il rogo della pellicola originale ma anche una punizione-umiliazione corporale del critico. Ma come recita un vecchio adagio, ad ogni rivoluzione corrisponde una reazione: il potere del critico dietro cui vi è un potere ben più grande, quello della fabbrica riprende il controllo obbligando gli impiegati a ricostruire la sequenza della scalinata di Odessa con il ragionier Fantozzi nella parte del bambino nella culla!….Dietro questa ulteriore trovata comica, Salce può così nascondere definitivamente il proprio disappunto verso il film più amato dalla critica di sinistra così tanto odiata, mettendolo ulteriormente in ridicolo grazie a quella messinscena. Più tardi, quando i tempi si rivelavano maturi, una pletora di critici rancorosi, riuniti intorno a fanzines e riviste neo patinate, raccoglievano il testimone o se si preferisce, l’eredità lasciata dall’”uomo con la bocca storta” (2), elevando al rango di grande cinema il cosiddetto trash movie o cinema di serie B, forti della legittimazione di un regista di rango come Quentin Tarantino. Non è difficile intravedere dietro tale rivalutazione critica, che perdura ancora oggi, un risentimento ideologico verso quell’ormai antica egemonia culturale della sinistra italiana (che aveva il suo cuore pulsante nel Partito comunista), che nel cinema era assai evidente e che si esprime, ormai, in una grossolana contrapposizione tra cinema d’autore e cinema trash. Che cosa ha, dunque, insegnato il riscatto di Fantozzi alla gran massa di spettatori e suddetti critici? Che c’è più coraggio e anticonformismo in un film dove si osa bruciare una pellicola d’autore, che in tanto cinema “di regime” come diceva e ancora dice la destra nascondendosi dietro il linguaggio della sinistra!…
VIII. L’intellettuale all’inferno nel cinema di Claude Lelouch
Nella prospettiva di un cinema di buoni sentimenti (o una sorta di cinema du papà più avanzato?) di “treni che partono e di amori sotto la pioggia”, qual è quello di Claude Lelouch (1937), colpisce che in uno delle sue opere più note Una donna e una canaglia, 1973, egli si cimenti in un dialogo dei massimi sistemi, che in realtà è una conversazione a tavola tra esponenti di un’ipotetica borghesia intellettuale parigina dove reazione ed engagè si mescolano con disinvolta indifferenza, e dove il regista può finalmente esprimere il proprio livore verso i “mandarini della cultura” che oggi diremmo senza troppa originalità, i “radical chic” dell’antica egemonia di sinistra. A farne le spese è un duro capitato per caso in quell’ambiente attraverso l’invito della sua amante, una giovane antiquaria che di quell’ambiente è parte integrante. Quel duro ha la faccia di Lino Ventura, il quale pare uscito da un noir francese o da un hard boiled americano. Ecco, proprio in questo singolare innesto è possibile cogliere il confronto-scontro tra due idee opposte di cinema: quella d’autore, rappresentata dal salotto borghese forbito e colto e quella commerciale, nella maschera di duro dell’attore Ventura (sebbene un regista “noir” come Jean Pierre Melville (1917-1973) sia considerato un autore a tutti gli effetti). Lelouche, regista notoriamente conservatore, perfettamente identificato con il personaggio-marziano, può così esprimere il proprio pensiero reazionario, conferendo a quest’ultimo una dignità che i suoi interlocutori “intellettualoidi”, di certo non possiedono. Alle incalzanti domande di uno di essi, riguardanti film engagè del momento come Prima della rivoluzione di Bernardo Bertolucci oppure I pugni in tasca di Marco Bellocchio, 1966, egli risponde di non averli mai visti. Alla domanda sempre più incalzante se fosse un lettore di recensioni per orientarsi su quali film vedere, la risposta che lascia tutti sbalorditi è la seguente: non lo sono, faccio come quando scelgo una donna, accetto il rischio.
- IX. L’intellettuale all’inferno secondo Nanni Moretti
Nel suo periplo estivo a Roma a bordo di una Vespa nel film Caro diario, 1993, Nanni Moretti, tra i tanti personaggi in cui s’imbatte, vi è quello di un critico cinematografico di cui aveva letto la recensione di una pellicola horror, Henry pioggia di sangue di John Mc Naughton, 1990. Come in una sorta di pochade, Moretti, nella sequenza successiva, si ritrova a casa del critico (interpretato da un altro regista, Carlo Mazzacurati), che sottoporrà ad una sorta di gogna leggendogli parola per parola, la recensione di quel film che a sua volta puro kitsch letterario, fino al punto di vederlo piangere per la vergogna. “Le parole sono importanti”, tuonava per l’appunto, lo stesso Moretti dalla piscina di Palombella rossa, 1989! La sua non era una requisitoria sulla critica in generale o sulla figura dell’intellettuale, ma su una certa categoria di critica ermetica e immaginifica, ben poco attinente alla concretezza filmica, in altre parole di una critica che mescola con disinvolto snobismo radicalità e intellettualismo. Moretti, inoltre, nell’introdurre la figura di un critico cinematografico (ossia Tatti Sanguineti nella parte di se stesso), accanito difensore del cosiddetto cinema di serie B o pulp o trash se si preferisce, che sarebbe, a suo dire, un anticorpo rispetto al cinema d’autore, si mostrerebbe perlomeno ricettivo al dibattito molto cinephile, iniziato negli anni ’90 del secolo scorso e ancora oggi presente, perlopiù fondato sulla contrapposizione tra due modelli di cinema diametralmente opposti, dibattito che è come una lancia spezzata a favore delle disintegrazione del critico intellettuale, militante e politicizzato, in nome di quel qualunquismo tanto radicato nella mentalità italiana.
- L’intellettuale all’inferno nel nuovo cinema d’animazione: Ratatouille
Il fatto che in un film americano d’animazione in 3D, Ratatouille di Brad Bird e Jan Pinkava, 2007, prodotto da Pixar, il marchio più avanzato nel settore, si parli di un topo, grande chef e di un critico culinario, tale Anton Ego che di volta in volta, ristorante dopo ristorante, si diverte a dare voti e a stroncare gli altri chef che gli vengono a tiro, non può che rivelarsi spia interessante di un pensiero, di una tendenza, divenuta ormai mainstream, di progressiva messa al bando, o se si preferisce, di critica feroce alla figura dell’intellettuale, quale che sia la propria funzione nella diffusione della cultura di massa. Si badi bene, non l’intellettuale di regime, colui che fiancheggia il sistema, lodandolo per convenienza e ricevendo da esso brebende e privilegi, non il barone universitario e lo studioso accademico, entrambi funzionali al sistema culturale istituzionale ma più in prospettiva, del futuro mercato del lavoro, ma l’intellettuale forte della propria coerenza e coscienza critica e nient’altro, ma proprio per questo, pericoloso per ogni regime. Quindi quella del critico dovrà essere necessariamente una figura odiosa, nota per la sua intransigenza che in verità nasconderebbe una sorta di invidia radicata nei confronti degli autori. Ben noto e altresì corrivo è il luogo comune che vedrebbe un critico come un artista mancato, un escluso risentito e rancoroso dalla creatività che sarebbe una prerogativa dell’artista. Se, ad esempio, nell’Austria all’epoca di Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791) fosse esistita la figura del critico musicale, Antonio Salieri (1750-1825), sarebbe stato certamente il più grande, avendo lui intuito e compreso per primo la grandezza del suo genio musicale. Anche in questa operina di squisita fattura, non a caso, è proprio il critico a parlare di se stesso e del proprio ruolo con implacabile lucidità autocritica:
Per molti versi la professione del critico è facile: rischiamo molto poco pur approfittando del grande potere che abbiamo su coloro che sottopongo il loro lavoro al nostro giudizio. Prosperiamo grazie alle recensioni negative, che sono uno spasso da scrivere e da leggere, ma la triste realtà a cui ci dobbiamo rassegnare è che, nel grande disegno delle cose, anche l’opera più mediocre ha molta più anima del nostro giudizio che la definisce tale. Ma ci sono occasioni in cui un critico rischia davvero…ad esempio, nello scoprire e difendere il nuovo. Il mondo è spesso avverso ai nuovi talenti e alle nuove creazioni: al nuovo servono sostenitori!
E’ curioso notare, infine, che soltanto un anno prima Nanni Moretti, in Il caimano, 2006 nell’inventare la figura di un critico gastronomico, ne offriva una versione caricaturale, che più trash non potrebbe essere, sia pur con una qualche ironia, tanto da far rimpiangere l’eleganza animata del film giapponese.
Note
- I tre sostantivi o soggetti fanno riferimento ai rispettivi film omonimi di Francesco Maselli, del 1955, 1960, 1964.
- Si tratta del titolo di un film documentario di Emanuele Salce e Mattia Pergolari, 2009, sulla figura del regista Luciano Salce.
* Il presente saggio trae ispirazione da un film di montaggio di Maurizio Fantoni Minnella L’intellettuale all’inferno secondo il cinema, presentato nel 2024 al “Missing Film Festival” di Genova.
