Giolitti e le correnti invisibili della Storia

-di PIERLUIGI PIETRICOLA-

 

Ripubblicato da Arcadia Edizioni,  Memorie della mia vita di Giovanni Giolitti torna oggi come un reperto che chiede non solo di essere letto, ma decifrato. L’autore non offre semplici ricordi: compone, piuttosto, una sorta di mappa delle forze profonde che hanno agitato l’Italia dall’Unità alla Grande Guerra. È un libro che mostra come la storia non sia il frutto di eventi isolati, ma un paesaggio invisibile, fatto di correnti sotterranee che un uomo come Giolitti seppe osservare con una lucidità quasi rituale.

La prosa di Giolitti colpisce per ciò che evita: non indulge, non persuade, non celebra. Ritrae i fatti come li vedeva lavorare dall’interno, come un artigiano che conosce segreti ignoti agli spettatori. Nei suoi capitoli non c’è enfasi, ma la sobrietà di chi ha attraversato l’ingranaggio dello Stato e ne ha ascoltato il rumore profondo. Una sobrietà che oggi appare quasi ieratica, perché restituisce la politica alla sua dimensione più rara: quella del pensiero che precede l’azione.

Le Memorie raccontano l’infanzia, la formazione burocratica, le battaglie parlamentari e le tensioni sociali con una calma che a tratti pare sospesa. Ma dentro questa calma si muove ciò che davvero interessa: una visione dell’Italia come organismo in evoluzione, come comunità dominata da impulsi collettivi che occorre comprendere prima di tentare di governare. È qui che Giolitti, pur senza mai dirlo apertamente, si mostra vicino a un’intuizione zolliana: la politica come arte di leggere i movimenti psichici del corpo sociale, più che di imporre una volontà personale.

L’attenzione minuziosa con cui descrive scioperi, rivendicazioni, crisi agricole e industriali non ha nulla del tecnicismo. Al contrario: sembra rivelare un sottofondo quasi mitico, come se ogni agitazione fosse eco di una cadenza più antica, di quei cicli storici che ritornano e modellano le nazioni. Lungi dall’essere spettatore passivo, Giolitti comprende che la funzione dello Stato non è soffocare tali energie, ma incanalarle, dando ai conflitti una forma civile — un compito che aveva qualcosa del sacerdote e del geografo insieme.

Nelle sue pagine affiora un’Italia in bilico: giovane, ancora incompiuta, già però percorsa da forze incompatibili tra loro. Giolitti osserva queste tensioni con la freddezza di un matematico e la pazienza di uno studioso dei simboli. E, soprattutto, non cede mai al mito dell’uomo solo al comando: la politica, per lui, è un’arte corale, fatta di equilibrio, di prudenza, di tempo. È proprio questa sua visione, così distante dalla retorica contemporanea, a rendere le Memorie preziose e sorprendentemente attuali.

Questo testo, oggi, ha una funzione che va oltre la semplice testimonianza: invita a ripensare la storia d’Italia come un dramma sotterraneo, una narrazione fatta di forze che non sempre si vedono, ma che determinano ogni mutamento. Giolitti, con la sobrietà di un funzionario e la profondità involontaria di un sapiente, ci mostra come la politica possa essere anche un esercizio spirituale: la ricerca di un ordine possibile dentro un mondo che tende sempre verso il disordine.

Rileggerlo oggi significa scorgere, dietro il velo della cronaca, l’affacciarsi di quelle stesse energie collettive che plasmano ancora il nostro presente. E capire, forse con un brivido, che Giolitti le aveva già viste.

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